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Le Menestrel e la dittatura dell’altezza

Giu 5, 2020

Redazione Alpinismi

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Chi in-segue Antoine Le Menestrel attraverso i social si sarà reso conto di quanto, in quest’ultimo periodo appaia trepidante. La quarantena non sembra aver sfiorato la sua irrefrenabile carica creativa che, non potendosi momentaneamente manifestare negli spazi consoni allo spettacolo, ha trovato nuovi campi di gioco. Ecco che attraverso una sagace intervista, Stéphanie Ruffier ci mostra come l’immaginazione di Antoine sia in fiore, ancorchè illuminata da nuove e mature prese di coscienza.

«E se ridiscendessimo sulla terra?»

Pubblicato il 26 aprile 2020 su Le Trois Coups.

Intervista di Stéphanie Ruffier.

Traduzione a cura di Michele Fanni e Marzia Garzetti.

Antoine Le Menestrel, l’incantatore di pareti che ha innalzato la scalata al rango delle belle arti, stava preparando uno spettacolo discensionale quando è comparso il Covid-19. Confinato a casa sua, a due passi dalle falesie di Buoux (Vaucluse), eccolo lanciare uno sguardo giocoso verso il passato, legando il tutto al suo prossimo obiettivo: «la condivisione è la mia nuova vetta».

Era poco più di un anno fa, in una sera d’aprile, al festival Le Grand Ménage. Ancora folgorati dall’ipnotico rito musicale condotto da Rara Woulib per le strade di Cucuron, Antoine Le Menestrel ed io discutevamo della connotazione negativa del termine decrescita, il movimento politico ed economico a cui auspichiamo. Come renderlo desiderabile? Quale parola potrebbe tradurre l’indispensabile decelerazione e frugalità di cui gli esseri viventi hanno bisogno? Antoine collegava questo anche alla sua ricerca di un nuovo linguaggio sia scenografico, sia verbale.

Scalatore d’eccezione, Antoine Le Menestrel, è stato uno tra i primi tracciatori per competizioni internazionali d’arrampicata, prima di diventare l’artista in dialogo con facciate e vette urbane. Anche il suo nome sembrava destinarlo alle acrobazie e agli allegri canti dei trovatori! Così, durante i festival di teatro di strada, si può notare la sua silhouette da ramoscello: asciutta, muscolosa e flessibile; un aspetto da folletto che spicca tra la folla, con i capelli raccolti in una corona di erbe selvatiche. Con la sua compagnia, Lézards bleus, dà corpo alla sua poetica verticale. Ma proprio lui, che ha affrontato le antiche pietre del Cour d’honneur del Palazzo dei Papi di Avignone per l’Inferno di Romeo Castellucci e ha danzato sui tetti della Bibliothèque nationale de France a Parigi, ora sceglie di mettere in discussione la nostra mitologia delle altezze. La sua nuova creazione, La Dictature du haut (la dittatura dell’altezza), si presenta, in linea con gli attuali interrogativi sulla dismisura umana, sull’abisso che divide l’alto e il basso, auspicando un percorso di ritorno alla terra. Riflette sul rapporto con gli esseri viventi e sulla relazione con i cittadini.

Non è troppo difficile restar fermo, mentre navighi nel pieno della creazione?

Sono in modalità mini-residenza. Scrivo, provo i testi, lavoro ai ponteggi di un’impalcatura alta 8 metri, per preparare una coreografia sulla caduta. Per la caduta della mia storia, giustamente. Mi sono impegnato molto per fare in modo che quest’avventura mostrasse anche i suoi vantaggi.

Su Facebook racconti molto del tuo percorso nel mondo dell’arrampicata su roccia. Nostalgia?

Negli ultimi due anni ho ricostruito la mia vita da arrampicatore. Verrà pubblicata. Vado indietro nel tempo grazie ai diari di bordo della mia gioventù, che ho compilato, quasi quotidianamente, per vent’anni. Li sto ricopiando. In questo momento non posso scalare in falesia, ma posso raccontare quello che ho vissuto, una storia per ogni via aperta. Penso che ciò faccia bene anche agli altri scalatori.

Secondo questa routine, ogni mattina faccio meditazione, poi passo due ore a ricopiare e infine svolgo un po’ di lavoro per la compagnia. Ci sono molte date da riprogrammare. Ho persino suggerito a Jean-Raymond Jacob, il direttore del Centro Nazionale delle Arti di Strada di Garges-lès-Gonesse, di passare la quarantena fuori, sulle facciate. Per il momento tutto è rimandato alla fine di settembre. Sto pensando di fare un piccolo spettacolo a casa mia, sfruttando i piani della mia facciata, in maggio. Le persone potranno venire a vedermi.

La dictature du Haut. Foto archivio Le Menestrel

Quello che stiamo vivendo mi sembra s’intoni bene al tuo desiderio di rompere con la dismisura della vetta, di ridiscendere con umiltà verso la terra, l’humus…

Sì, desideravo allontanarmi dall’universo della conquista, dal concetto di primo di cordata. Per smontare l’immaginario dell’altezza. Ma senza ricorrere ad una parola negativa come declino. Ho trovato un termine astrologico: la discensione. Resta ancora un movimento, ma umile.

Con la complicità di Marie-Do Fréval, co-autrice dei testi, sto mettendo a punto il mio discorso. Ho scritto degli slogan: Le sommet est une voie sans issue (la vetta è una via senza uscita), La descente n’est pas indécente (la discesa non è indecente); Sans bas pas de haut (senza basso niente alto);  En descendant, je découvre de nouveaux horizons (scendendo scopro nuovi orizzonti). Seguo le orme di Camus che ha scritto: «è durante questo ritorno, questa pausa che Sisifo mi interessa. Questo momento che è come un respiro». Ma penso anche a Lo Spopolatore di Beckett: «il bisogno di salire è troppo diffuso. Smettere di provarlo è una straordinaria liberazione».

Pensi che questa situazione possa far emergere nuovi immaginari?

Nel 1985 avevo vent’anni e praticavo l’arrampicata libera, una disciplina, allora, assai marginale in falesia. Ho firmato il Manifesto dei 19 perché lo spirito competitivo, che consisteva nell’essere più forte dell’altro, era cosa che non ci interessava. Abbiamo preferito sviluppare lo stato d’emulazione, dove l’altro ci aiuta ad essere migliori.

Un anno dopo, solo uno di noi rimase fermo sulla posizione di rifiuto. Altri due, uno di questi ero io, hanno avuto l’idea di tracciare vie. Quello è stato il mio primo mestiere. I restanti sedici si sono dati alla competizione. Allora ho capito che potevo considerare le gare come spettacoli nei quali si metteva in scena la ricerca del migliore. Mi sono reso conto che stavo diventando coreografo, regista, drammaturgo del movimento. Non volendo trovarmi a combattere contro al mio immaginario, ho preferito fare in modo che si sviluppasse.

Con La dittatura dell’altezza è la stessa cosa: non sono contro gli scalatori, voglio solo raccontare le storie dal basso, quella prospettiva dimenticata e nascosta: la discensione. In questo modo, chissà, forse, la lotta contro al virus darà origine a nuovi modelli?

Buoux 1980. Foto archivio Le Menestrel

Hai scritto sui social: «stiamo facendo del bene al nostro ecosistema terrestre. Sto atterrando. Sto rivivendo. Sto diventando terrestre. Il virus è un discensore». Come percepisci questa nuova energia?

In me non c’è più questa corsa, questo desiderio di aumentare sempre. Mi ha fatto scoprire la sobrietà. Non do il massimo come prima, c’è una forma di moderazione a guidarmi. Lavoro una o due ore, non più tutta la giornata, come prima. Dopo il confinamento, mi sento come un esploratore che reinventa lo spazio urbano, visto che questo si è rinnovato nel nostro immaginario. Le strade sono deserte, ma i balconi e le finestre sono stati ripensati in modo differente.

Nell’attesa, resto nel mio giardino; viaggio in questo spazio: riordino, rileggo, ricopio. Il nostro slogan era En haut, c’est bien, plus haut c’est mieux (in alto è bene, più in alto è meglio). Durante il confinamento preferirei dire: En haut, c’est bien; plus bas, c’est bien aussi (in alto è bene, più in basso è bene comunque).

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