Il tutto si risolve in una chiacchierata fiume, nel fitto dell’A4. Un paio d’ore, forse meno, giusto il tempo di coprire la distanza che separa Castelfranco Veneto a Verona. La meta della serata è il King Rock, dove Nicola Tondini introdurrà un incontro tra amici sull’Himalaya. Alla guida dell’auto e dall’altra parte del registratore c’è Emanuele Pellizzari, con il quale abbiamo ingaggiato un lungo confronto sull’arrampicata sportiva odierna. Non aspettatevi però dissertazioni su gradi, protagonisti, fenomeni del passato e del presente. In realtà siamo rimasti con i piedi per terra. Durante il confronto abbiamo toccato le criticità del “fenomeno”, iniziando dall’impatto dei numeri per arrivare a problematiche pratiche, come l’assenza di “cessi” nelle aree più frequentate e la certificazione delle falesie, con tutti i pro e i contro del caso. Ci sono poi le Olimpiadi, la necessità di una coscienza condivisa per preservare le falesie e la valenza educativa di uno sport ormai entrato con forza nelle nostre vite.
In quanto al nostro ospite, Emanuele Pellizzari è un climber di lungo corso che dopo aver dedicato energie e forze all’alpinismo, pratica da diversi anni (quasi) esclusivamente l’arrampicata sportiva di alto livello. Ciò che più interessa però, è la sua lunga esperienza come chiodatore. Ha infatti scovato e attrezzato diverse falesie nel vicentino e nella zona del Monte Grappa, trasformando la passione in una professione che lo ha portato a certificare una propria linea di prodotti per l’arrampicata sportiva (spit, catene e tasselli) e a tenere periodiche conferenze in Italia e all’estero sul tema dell’attrezzatura e dello sviluppo delle falesie outdoor. Non da ultimo, Emanuele fa parte del team di ricerca UIAA sulla corrosione dei materiali.
Emanuele Confortin: ciao Emanuele, il mondo dell’arrampicata sportiva sta cambiando molto e in fretta. Cosa sta accadendo nello specifico?
Emanuele Pellizzari: l’arrampicata outdoor sta prendendo una piega peculiare dovuta al fatto che il numero degli arrampicatori sta crescendo in modo esponenziale. Con un incremento del 20% in tutta Europa, siamo già arrivati a un numero di arrampicatori indoor doppio rispetto a quelli che c’erano prima.
EC: questo andamento si limita all’arrampicata su strutture artificiali o interessa anche le falesie naturali?
EP: questo è il punto. Mentre una volta andavi in una falesia (naturale ndr) e ti trovavi in 10, adesso ti trovi in 18. È un cambio epocale, per rendere l’idea equivale a tentare di andare in autostrada la domenica mattina alle 9 o il lunedì sera alle 18,30. In più, molti di questi frequentatori non provengono dalla trafila pseudo-alpinistica, da cui un certo rispetto per l’ambiente. Il tutto si traduce in numerosi disagi dovuti all’iper frequentazione che possono andare dal classico “cesso mancante” alle auto parcheggiate selvaggiamente, ovunque, o ancora vie lucidate e mancanza di spazio. In Germania c’è già il problema che ci sono più arrampicatori di vie. La Germania è un caso eloquente, il boom è iniziato dall’indoor e negli ultimi 5 anni si è registrato un aumento costante del 20%. Un anno ci sono 120 arrampicatori, l’anno dopo non sono più 140 ma 150, dopo 2 anni sono 200 … dopo 4 anni sono 360 e così via. Una piccola parte di questi arrampicatori va fuori e quando escono sono tanti. Mentre prima le oscillazioni potevano essere del 2, 3, 4% annuo, qui adesso si parla di incremento fisiologico di arrampicatori outdoor con qualcuno dall’indoor… e stanno “esplodendo”. Con tutti i problemi connessi, inclusa l’usura. Per dare l’idea, alcune soste messe 3 anni fa con anello, addirittura senza moschettone di calata, di quelle che ci vuole impegno a consumarle, iniziavano ad avere i primi segni di usura da sfregamento sull’anello. Significa che se fosse stato un moschettone l’avresti già cambiato 5 volte. Questo in soli 3 anni.
EC: parli di Chulilla, vicino a Valencia, in Spagna. Se non sbaglio sei appena rientrato da un viaggio di lavoro e arrampicata? (http://chulillaclimbing.com/)
EP: a Chulilla ci sono più di 70 furgoni fissi che restano lì almeno 3 mesi all’anno. Pensando a 2 persone per ciascun furgone, è l’equivalente di una buona lottizzazione, ovvero una quindicina di abitazioni in realtà sostituite da persone che vivono per strada e che vanno a espletare i propri bisogni in natura, giorno dopo giorno.
EC: sulla base di questi fatti, ha senso di iniziare a pensare a una regolamentazione delle strutture outdoor?
EP: allora, ne abbiamo parlato a Chulilla proprio con gli spagnoli che hanno due o tre associazioni. È un tema che affrontiamo di frequente anche in Italia. Il punto è se la regolamentazione sia positiva o negativa. La maggior parte delle persone pensa che sia positiva. Della serie “tutto messo in ordine, tutto in regola, non ci si fa male, materiale a norma… eccetera”. Poi, quando si va a valutare a fondo, la maggior parte delle persone sane di mente inizia a comprendere i problemi. Facciamo un piccolo esempio. Due giorni fa (a Chulilla) incontro il sindaco. Dice che hanno intenzione di certificare le vie delle falesie, diventate molto in voga. Il problema fondamentale è che quando inizi a certificare, un conto è attrezzare con materiale certificato, un altro è certificare che il lavoro sia fatto a regola d’arte. Usare materiale certificato è semplice, installi un prodotto che risponda agli standard qualitativi previsti dalle norme, tuttavia non appena viene installato, nessuno controlla che sia stato posizionato in modo corretto e che dopo un tot di tempo sia ancora efficace. Basta guardare i rilievi a monte della Pianura Padana per capire che la roccia non è un materiale molto stabile. I crolli sono un’evenienza tutt’altro che remota, pertanto certificare le vie e fare in modo che queste certificazioni valgano nel tempo, assecondando quindi le trasformazioni della roccia, è molto complicato.
EC: provarci cosa comporterebbe?
EP: una persona (con il ruolo per farlo) potrebbe prendersi la responsabilità di definire un certo luogo sicuro, per un certo lasso di tempo. Sicuro potrebbe significare “non si rompe un appiglio” oppure “non cade un sasso dall’alto” o letteralmente “non frana giù la falesia”. Ci sono dei posti sul Monte Grappa ad esempio, dove alcune vie sono letteralmente scomparse, crollate a terra. Una di queste è il primo 8a che ho liberato, “Cavallo Pazzo” a Costalunga. Quindi, trovare uno che certifica una falesia lo trovi, magari lo fa con una scadenza a breve, tipo 2, 3 o 5 anni. I più furbi mettono scadenze annuali, altri a 3. Le richieste in Spagna erano a 5 anni, trascorsi i quali bisogna tornare a pagare una persona che vada a ricontrollare il lavoro. Allora, tutto questo comporta dei costi e delle responsabilità civili mostruosi. Se tu sei il piccolo comune con una falesia, ad esempio, restando nell’area del Monte Grappa che abbiamo citato, il comune di Romano d’Ezzelino, che ha disponibilità presumo limitate, la prima volta paga la richiodatura, la seconda volta forse aggiorna la certificazione, poi la cosa più semplice per il sindaco – in ragione dei costi commisurati al rischio – è vietare la scalata.
EC: mi sembra di capire che certificare potrebbe essere una bella idea, ma in pratica rischia di essere un boomerang?
EP: Quando si entra nel mondo delle certificazioni nel mondo naturale, ci sono una serie di costi e di problematiche che non se ne esce più. Poi si va anche nel discorso pratico, ovvero un comune grande ha soldi, uno piccolo ha pochi abitanti (e risorse) quindi ciascuno di noi quando va ad arrampicare deve pensare a quanti soldi porta, in genere calcolati in IVA nelle consumazioni (al bar) o nel dormire. Imposta che tuttavia va al governo centrale che in una minima parte la rimanda al comune. In poche parole, bisogna fare attenzione a chiedere qualcosa che è difficile da attuare e soprattutto mantenere nel tempo.
EC: Mi sembra di capire che la via mediana è la più logica. Nel passato molte pareti sono state attrezzate in modo selvaggio, parliamo di 20, 30 o 40 anni fa, anni in cui non c’erano la consapevolezza tecnica, i materiali e i numeri odierni, tali da permettere di sviluppare prodotti e soluzioni specifici, come oggi. Però, oggi, nel 2020, per arrivare a una soluzione ottimale, cosa significa attrezzare in modo sicuro una falesia?
EP: il problema cui accennavo in apertura, è che ci troviamo con un “chilometro cubo di persone” che escono da strutture perfettamente certificate come lo sono i muri indoor. Questo è un problema importante per chi attrezza in ambiente naturale, in quanto tali arrampicatori non sono abituati a fare nulla: arrivano in catena dove trovano due moschettoni, li passano, a volte uno soltanto, si calano… i rinvii sono già in posto. Non sono abituate a valutare tanti altri parametri che in genere si trovano all’esterno. Queste persone stanno diventando sempre di più, quindi mentre nel passato per fare un lavoro come “Dio comanda” si faceva presto, bastavano poche nozioni e chi frequentava aveva un’idea abbastanza chiara di quello che avrebbe trovato. Si comperava un po’ di materiale più o meno in regola, poi trapano e tasselli ed era fatta. Adesso è cambiato completamente il consumatore. Portando la cosa in ambito automobilistico, sarebbe come produrre macchine senza airbag, abs, controllo della trazione e senza sensore che ti avvisa che stai tamponando l’auto davanti. Cambia completamente. Chi si mette ad attrezzare o a riattrezzare all’esterno, deve considerare che gli utenti non sono più quelli di un tempo. Nel passato chi scalava indoor era una minoranza tra le minoranze, ora sta diventando la maggioranza. Di conseguenza bisogna cambiare la logica impiegata nell’attrezzare le falesie. Non da ultimo, aumentando le dimensioni dello sport, aumenta la possibilità che qualcuno effettivamente vada a controllare quello che un apritore sta facendo, pertanto è indispensabile puntare a fare un lavoro a regola d’arte.
EC: Ma cosa significa “regola d’arte” in termini pratici? Ad esempio, io sono alto 1,70 o poco più, tu sei più di 1,80 quindi la distanza tra gli spit? Esiste una logica in tal senso? Non dico una regola, ma almeno una logica di base?
EP: troviamo sia una regola che una logica. Spesso la regola non è confacente alla logica. L’unica regola scritta e riconosciuta dal punto di vista legale è la normativa francese COSIRC che sostiene che il primo ancoraggio debba essere posizionato sotto i 3 metri di altezza, il secondo a 1,40 m dal precedente e così via, fino a oltre 3 metri. La logica dice invece “metti sempre l’ancoraggio dove sei in grado di rinviare”. Non sempre è possibile attrezzare rispettando la norma, pertanto un chiodatore con un minimo di sale in testa mette gli spit a una ragionevole lunghezza, vicini a un appiglio buono, dove lo scalatore riesce a mettersi nella posizione opportuna e a rinviare. Questo può portare ad avere tratti lunghi, altri chiodati corti. Il consenso generale è che una persona da terra, guardando il tiro, deve avere un’idea generale di quello che lo aspetta. Può essere terreno d’avventura, via chiodata lunga o chiodata corta. Quindi un misto tra logica e norme porta a un lavoro fatto bene. Secondo me, è più importante la logica, infatti i tiri più belli sono quelli che hanno logica, i più brutti sembrano tutti uguali.
EC: In quanto alle catene. Capita di andare in falesia, di trovare moschettoni in catena vecchi, pertanto ha senso usare le proprie ghiere, io almeno faccio così, poi però mi calo prima di andarmene usando il materiale in loco. Di rado ma mi è capitato di trovare attrezzature pessime, tipo catena nuova e moschettone di quelli da ferramenta. Questa è logica o cos’è?
EP: la maggior parte di chi attrezza è dotato di grande buona volontà ma di risorse limitate, pertanto paga di tasca propria. Alcuni di loro si fanno un po’ prendere la mano, guardano più la quantità che la qualità e si perdono. Ci sono comunque due problematiche da mettere in chiaro a tal proposito. Una è il rispetto per il materiale in loco. Chi arriva in sosta dovrebbe sempre mettere il proprio materiale in modo tale da limitare il materiale, bello, brutto, cattivo o vecchio, lasciato dall’attrezzatore o, nel caso di un comune, messo dal comune. Secondo caso, quando si trova del materiale non confacente all’uso. Questo è anche facile da vedere. Tutto quello che non ha una marca, di norma è una merda. Significa che il moschettone normato che tiene meno, ha capacità di 22 kN, ovvero 2.200 kg. Uno scalatore deve quindi avere un moschettone di questa capacità. Invece no! Quando si vede una qualsiasi cosa priva di marchio chiaro ed evidente, nella migliore delle ipotesi si arriva a 1.200 kg. Le persone di buon spirito dovrebbero cambiare ogni tanto quello che trovano, almeno nei luoghi che frequentano molto, oppure, se vedono che il materiale da calata è pericoloso, “rubare” tutto. Rubare significa disattrezzare la catena (togliere il moschettone di calata e lasciare la catena ndr) in modo che chi verrà dopo, soprattutto se persona incapace di valutare l’affidabilità del materiale, sia costretta a usare il proprio. In questo modo, dopo un po’ di tempo, gli arrampicatori (forse) capiranno che se non ci si mette tutti a collaborare per valutare l’usura e per preservare il materiale in loco, prima o dopo qualcuno si farà male. Ad ogni modo, devo ammettere che catene, moschettoni arrugginiti e vecchi, una volta testati danno carichi sufficienti a portare sempre a casa la pelle, è più l’impressione che è pessima.
Ovviamente ciò non significa che continuare ad affidarsi al materiale scadente o rovinato sia logico o regolare!
EC: In chiusura, tornando ai numeri e alla crescita quasi esponenziale della frequentazione di falesie e siti indoor. Nel 2020 ci saranno le Olimpiadi di Tokyo, con l’esordio dell’arrampicata sportiva tra le discipline olimpiche. La crescita della disciplina è legata all’effetto volano dovuto alle Olimpiadi o sarebbe comunque avvenuto?
EP: secondo me prima è venuto il boom dell’arrampicata che in alcune nazioni continua da più di 10 anni. Perciò poi sono arrivate le Olimpiadi e a parer mio, credo che saranno quasi ininfluenti sul trend di crescita costante che già c’era. Continuerà di sicuro anche se si spera cali un po’ in quanto sta diventando impegnativo per l’ambiente, visto che alcune di queste persone usciranno. Da statistiche emerse su 8a.nu, sito inventato da uno svedese, dove la maggior parte delle persone portate a un certo tipo di competizione o che comunque vogliono ricordare le vie fatte, registrano le proprie salite su questo portale. Un recente sondaggio ha dimostrato che l’enorme maggioranza degli arrampicatori che vanno anche indoor, quindi quelli più evoluti, non va oltre il 7b. Già oltre il 6c c’è un cambio drammatico. Quindi, le Olimpiadi sono disputate da atleti che vanno dall’8c al 9a e 9b. È completamente scollato, come parlare dei 100 metri piani olimpici, in rapporto a chi va a correre per strada per tenersi in forma. Certo, è lo stesso sport, bello da vedere in tv, magari c’è anche chi va a correre due volte la settimana, però in realtà il fatto che ci sia Usain Bolt non porta a un largo seguito di corridori da 100 metri piani.
EC: visto che viaggi molto e che lavori spesso in Europa, quali sono i Paesi cui potremmo guardare come gestire l’arrampicata, dove viene organizzata in modo in intelligente?
EP: secondo me Francia e Paesi scandinavi, dove è più facile in quanto hanno fondi totalmente diversi. La Germania non è un buon riferimento, forse per motivi storici, forse perché sono tanti. Alle volte hanno una tendenza un po’ arrogante, almeno nell’arrampicata si verifica quella che io chiamo la vittoria dei peones. Siamo i Pigs (Portugal Italy Greece Spain; acronimo usato in economia per identificare le nazioni del Sud Europa particolarmente colpite dal debito ndr) tra i più poveri dell’Europa ma almeno abbiamo la roccia, mentre loro non hanno nulla per questo vengono sempre da noi a scalare. In Francia invece hanno fatto un grande lavoro sull’arrampicata, iniziato 30 anni fa, anche se dal punto di vista delle gare non hanno i risultati che una massa così ampia di frequentatori dovrebbe garantire. Sono di gran lunga i più avanti. Sostanzialmente ogni bambino arrampica in quanto si è scoperto che non si tratta solo di sport, ma anche di una disciplina con grande valenza educativa. Impone l’autocontrollo, ad esempio facendo sicura a un altro tu ti prendi una responsabilità, non è una cosa scontata per un ragazzino. Cominciano alle elementari, ogni scuola ha il proprio muro di arrampicata, poi continuano e mantengono uno spirito ricreativo che si traduce nella frequentazione di famiglie intere, che possiamo osservare nei fine settimana a ravanare sui 5a o 5b. Si è creata questa massa di utenti davvero molto ampia. I Paesi scandinavi agiscono invece in modo diverso. Hanno spinto subito sull’indoor, mentre i francesi anche sull’outdoor. (Gli scandinavi) Hanno investito molto anche perché il clima è un limite importante e non permette di arrampicare ogni giorno come nel sud della Francia. Ad ogni modo hanno lavorato molto bene, e praticamente tutti hanno provato a scalare almeno una volta nella vita.
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