A lui temo non farà gran piacere, ma quando penso all’Andrea la prima parola che mi s’appiccica in zucca è eretico. Eretico non quanto un Fra Dolcino o un Tommaso Moro, ma volendo fare quelli che vanno in cerca di radici: eretico come quelli che fanno una scelta; e Imbrosciano è sicuramente un soggetto che ha scelto (a volte anche di non farsi capire).
Partito da Sora, una non così piccola cittadina del frusinate, quando ancora i dinosauri scorrazzavano fieri per le lande, ha presto iniziato a combinarne di ogni, dalle Dolomiti al Gran Sasso, dalle isole del Mediterraneo insino alla perfida Albione. Ha vissuto le rampichevoli epoche degli Eighties&Nineties in tutto il loro dilettevole orrore innaffiando (con non poco vino) e coltivando un senso critico al vetriolo.
Ha girato un po’ di mondo appassionandosi allo scalare bene (non per nulla collabora da secoli col buon Paolo Caruso) e al chiodare meglio (è coautore della regolamentazione per i siti di arrampicata voluta dalle associazioni di settore italiane). Insomma che nel giro di trent’anni montagnini, forse anche controvoglia, è diventato una specie di guida spirituale per quanto concerne sassi, sfalsate e burocrazie della verticale.
Odontotecnico protesista di professione, responsabile della formazione Tecnici sportivi Uisp Lega Montagna per amore dell’umanità, da più di dodici anni porta avanti con l’associazione Innatura asd, un progetto di sviluppo del territorio tramite attività outdoor con tanto di locanda sociale e centro di formazione nell’Alto Volturno dove tenta donchisciottescamente di inseguire ancora l’ultima utopia.
Lo incontro in una calda mattina di giugno a Orco nell’ormai mitico B&b Bed and Climb di Paola e Mauro. Andrea passerà buona parte della chiacchierata schiantato su un divano manipolando con noncuranza un cubo di Rubik che rimarrà a fine confabulazione immancabilmente irrisolto.
[Andrea osserva curioso i diversi fogli spantegati che mi circondano, mentre cerco di far partire il registratore.]
…. azz ma quanto so’ lunghe ‘ste domande?
Ma guarda che è un’intervista seria.
Beh, ma allora ci vuole il vino!
Urka, già alle dieci di mattina! Non so se ce la faccio a tenere i tuoi ritmi.
Dici? Mi sa che manco io ce la faccio. [E se la ride gaglioffo]
Dai, basta cincischiare. Andrea, ormai sei una specie di dinosauro: dimmi, cosa voleva dire nel lontano Giurassico, arrampicare in quel del Centro Italia? Come vi siete inventati questo strano gioco del salire e scendere per bricchi?
Mah, in effetti non lo so.
Dare una definizione adesso di quello che è stato allora non è affatto semplice. Anche perché adesso vivo una fase, non dico di totale rigetto, ma sicuramente sento come una volontà di dimenticare per fare meno fatica a vivere questo momento.
Allora era così e basta. Facevamo le cose senza star lì a porci nessuna questione di sorta. Certo, il maggior problema era l’etica, ma l’etica era anche legata al momento di cambiamento che stavamo vivendo.
Tentavamo di fare una cosa che gli altri non facevano: nel mio paese l’idea di attività fisica era legata quasi esclusivamente al calcio, non c’era proprio l’idea dell’arrampicata. Anche se devo dire che a Sora c’era un distaccamento di un battaglione degli Alpini, e questi Alpini non lontano dal paese avevano aperto alcuni itinerari su roccia.
Per quanto riguarda il Centro Sud non ti so dire bene, perché io non ho fatto parte dello sviluppo di questo Centro Sud. Io ho conosciuto prima quello che è successo nella provincia di Frosinone e poi ho avuto a che fare con l’arrampicata romana, ma è una cosa ben diversa.
Era sicuramente tutto un mondo da scoprire, con regole, bugie, falsità, imbrogli. Ma nessuno di noi si faceva allora alcun tipo di domanda. Si faceva e basta.
Ma quindi come ci sei arrivato tu all’arrampicata?
Da ragazzino abitando in questo luogo piuttosto montano – anche se degli amici del nord dicono che è tutto rotondo – praticamente andava per la maggiore fare attività escursionistiche o comunque di vita all’aperto. Poi con gli scout sai, si facevano a volte certe attività specifiche; fatto sta che mi è venuto proprio un desiderio. Ma è finito là! Da ragazzini salivamo sulle montagne lì intorno, senza pensare minimamente a quello che era il verticale.
Un giorno un mio amico, Fabrizio, che aveva una casa a Selva Nevea (località del Comune di Chiusaforte in provincia di Udine ndR), m’incominciò a dì: «eh, ma io tutti gli anni vado là, ci sta gente che sale le pareti!». E quindi automaticamente abbiamo incominciato a “vedere” anche noi la verticale. Ma erano tutte cose molto capresche: avevamo le imbragature fatte con le fettucce delle serrande, la corda l’avevamo comprata dal ferramenta. C’ avevamo quella che, più o meno, penso sia stata la comune attrezzatura alpinistica di quei soggetti che non hanno avuto punti di riferimento. Anche se a Sora c’era il CAI dal 1929, però, sai, eravamo completamente staccati da loro, non avevamo alcun tipo di rapporto.
E questo Fabrizio che tipo era?
Fabrizio adesso è un generale della Finanza, all’epoca veniva dalla pallacanestro. Anch’io allora giocavo. Lui era un gigantone di unmetroenovanta, però era ormai stanchissimo di questa storia della pallacanestro, anche perché era il padre che lo costringeva a farlo. E ogni tanto si metteva in testa di fare queste cose. Lui si definiva un arrampicatore di croda, il cosiddetto crodaiolo. Avendo casa in quell’area lì spesso andava in Alpi Giulie o comunque lì vicino. E da lì poi abbiamo cominciato a fare quello che leggevamo su Le mie Montagne di Walter Bonatti.
Ma come, tu che inizi a scalare leggendo Bonatti?
Sì, praticamente, un anno mio fratello, che non sapeva assolutamente cosa regalarmi per un compleanno, passò davanti ad una bancarella e trovò ‘sto libro. Mi sembrava di avere in mano chissà che cosa. Intanto leggevo senza sapere nemmeno dove stavano ‘sti posti, non è che so’ mai stato un drago nella geografia, però…
Da lì ho cominciato a leggere e vedere. Erano per me dei racconti, non è che ci fosse un richiamo per andare a fare. Poi mano a mano che facevo cose in montagna con Fabrizio, allora uno cominciava a dì: «ah, ma allora questa cosa… questo è bello…», e così ci siamo fatti un calendario di attività per tentare di ripetere le stesse cose che aveva fatto lui, il Bonatti.
Guarda che è ben strano perché a conoscerti un poco, mai avrei pensato questo tuo incontro libresco proprio con lui…
Ma infatti, dopo negli anni, mi sono accorto che nulla era condiviso tra me e questo personaggio.
Poi ho conosciuto una persona molto più grande di me che si chiamava Leone. Lui mi ha indirizzato alla cultura dell’arrampicata: Rehinard Karl, John Gill e tutti quanti gli altri. Questi si avvicinavano sicuramente molto di più al mio carattere o a quello che avrei voluto avere. Credo che comunque ‘sta storia di Bonatti sia stata come leggere un libro senza interrogarsi più di tanto perché lo avesse fatto, capito? Un po’ come per i libri di Maestri e di Messner . A me non è che mi sia mai fregato nulla di ‘sta lotta con l’alpe, non mi rimbalzava minimamente proprio. Però era un libro come un altro. Come leggere Moby Dick, poi non è che pensi di essere Achab, anzi più facilmente t’immagini d’essere la balena.
Poi quindi ti sei costruito un tuo immaginario alpinistico di riferimento?
In un certo senso sì, abbiamo costruito un nostro personalissimo Pantheon, ma con un muro altissimo, anche perché poi non avevamo la possibilità di andare fuori a verificare se quello che stavamo a fare era in linea con il resto d’Italia.
Guarda, io più vado avanti e più mi rendo conto che la storia di tutti è proprio questa qua: la difficoltà più grande, tanto più per noi che eravamo provinciali, era quella di mettersi a confronto. Non c’era alcun desiderio di andare a vedere cosa facessero gli altri, anzi ogni volta che qualcuno proponeva di uscire dai confini subito qualcun altro interveniva: «no, ma perché, stiamo così bene a casa!». E questo è durato per parecchio tempo, non avevamo neanche diciott’anni allora. Questo ha sicuramente creato non poche difficoltà anche nella nostra maturazione personale: il desiderio continuo di appartenere ad un gruppo, a qualcosa, non è stato poi così fruttuoso.
A quel tempo stavamo sempre lì in questo famoso sito vicino a Sora, dove andavano anche gli Alpini; e ogni giorno aprivamo qualcosa. Non ci rendevamo manco conto di quello che stavamo a fare, però era così divertente.
Usciti da scuola andavamo là, dormivamo là, facevamo i muretti; c’eravamo inventati una specie di cucina economica fatta con tutti i disastri. Insomma, stavamo là. La vita all’aperto di un anormale soggetto di paese. Poi questa montagna, che si chiama Colle San Casto, è la montagna di tutti: un colle in mezzo alla città con un castello, un paese diroccato, sterrati, sentieri ripidi, rocce, alberi etc., un mondo a parte. Ecco era questo il nostro Pantheon, aldilà dei miti e delle mitologie. E infatti quando veniva qualcuno ci dava notevolmente fastidio. Sì, prima eravamo schivi, fuggitivi: appena si presentava qualcuno, anche solo se era a piedi a camminare tendevamo sempre ad evitare il confronto. Poi, tempo dopo ci capitò di fare una gita in Alpi Apuane e lì abbiamo capito che come noi facevano anche altri. Facevamo senza sapere perché lo facevamo. Almeno in quel periodo storico. Adesso saprei benissimo dirti cosa fare e come farlo.
L’avvicinamento all’arrampicata è stato dopo la scoperta delle montagne. Io avevo fatto già il Cervino e ancora non arrampicavo: la nostra inizialmente era un vita proprio di montagna, ecco anche perché l’influenza di Bonatti. La montagna ci interessava, l’arrampicata non sapevamo cosa fosse. Sì, avevamo visto ‘sti Alpini esercitarsi, però sai…
Non c’era in noi neppure l’aspetto romantico, perché ti devo dire la sincera verità che ogni volta che si andava sulle Alpi non è che sentissimo tutto ‘sto romanticismo. Anzi era una tortura di solito: ore e ore di treno per arrivare fino là, capitava spesso di essere trattati in modo sgradevole. Non eravamo poveri, ma neanche capaci di amministrare bene questi periodi di vacanza. E facevamo ‘ste vacanze di 3 mesi: arrivati ad agosto eravamo proprio dei barboni fatti a mestiere. Poi abbiamo iniziato a conoscere un sacco di gente quindi la situazione è diventata un po’ più familiare.
Roma, con i suoi Jolly Lamberti e Andrea Di Bari non era poi così lontana, voi da provinciali del frusinate come vi siete posti nei confronti della capitale? Che rapporti avete sviluppato con quel mondo?
Nessun tipo di rapporto che non fosse per l’arrampicata.
C’è sicuramente una questione legata alla territorialità: il provinciale, il cosiddetto burino a detta loro, non ha mai legato veramente con il soggetto romano, non c’è mai stato chissà quale grande legame. C’è stata forse una condivisione, una comune goliardia. Loro, in tutto quello che facevano, hanno sempre dimostrato una particolare arroganza. La nostra frequentazione del gota romano è stata parecchio difficoltosa anche perché, fatta eccezione per il gruppo di Andrea Di Bari – che era molto più popolare – gli altri erano schivi. Era difficile legare con loro. Però nei momenti in cui siamo stati insieme abbiamo fatto molte cose. Io per esempio ho scalato con Stefano Finocchi ed è stato anche bello e divertente. È stata la gioventù dai, senza montarci sopra tante pippe mentali.
Nell’aspetto etico ci sono stati notevoli scontri, questo sicuramente. Pensa all’idea di scavare le prese e altre che in ogni caso non hanno fatto bene all’arrampicata.
[Lunga pausa riflessiva da vero guru]
Credo poi, che questo valga dappertutto: se all’improvviso migliaia di persone giungono a frequentare un territorio ed ognuna di queste ha una idea differente che con ostinazione vuole imporre… Ecco, come inizio di rapporto una cosa del genere non può risultare né facile né piacevole.
Hai parlato di arrampicatori popolari, ma ancora negli anni Ottanta era così forte questa percezione in classi?
Noi l’abbiamo sempre percepita questa distanza. Pensavamo in modi completamente differenti. Pensa alla gestione del tempo, Loro ogni sabato e domenica erano a scalare, per noi non era così scontato. La domenica si stava a casa, poi magari si faceva un salto al bar a giocare a biliardo. Facevamo un’altra vita proprio. Non era facile per noi entrare nel loro meccanismo di pensiero. Poi non è che i genitori ci dessero i soldi per andare ad arrampicare o per comprare i moschettoni. Con quei pochi soldi che riuscivamo a racimolare facevamo quello che potevamo compreso chiodare. Ma non si programmava l’arrampicare la domenica, per noi non era facile.
Anche il relazionarsi al mondo del lavoro era completamente diverso: per loro era dal lunedì al venerdì, per noi non era così regolare e continuo. Spesso la domenica si lavorava. Poi le macchine! Reperirne una era già difficile e figurati funzionanti. Io che non guidavo, e non lo faccio ancora oggi, passavo ore nelle stazioni e negli autobus. È assurdo ma sono convinto ancora oggi che fosse giusto così. Chiaramente la mentalità del cittadino era più aperta della nostra, più predisposto ad andare alla scoperta e questo non è poco. Noi ci abbiamo messo tanto a capire quello che avevamo fatto, perché oltre a leggere non facevamo altro per conoscere, non ci confrontavamo con il resto del mondo. Le informazioni erano rare, ma preziosissime.
Quindi libri recuperati su qualche bancarella e poco altro?
Sì, poi come ti dicevo c’era Leone che aveva molta più cultura di noi in fatto di Montagna e tra l’altro aveva chiesto ad un libraio della zona di fargli arrivare diversi libri e manuali. Casa sua era diventata la libreria di tutti noi, pure degli antipatici. Era diventato un rifugio, insomma.
Lì siamo riusciti a capire meglio quello che stava succedendo, ed abbiamo capito anche per quale motivo iniziavamo a stancarci: non avevamo più nulla da fare in quel posto. Quello che c’era da fare era fatto, oltre non si poteva andare, almeno in quel periodo storico, ti parlo dell’intera decade degli anni Ottanta. Anche perché prima era la preistoria, nel senso che non c’era una storia. Eravamo ragazzini in assoluto senza il pensiero di valutare o interpretare quello che si stava a fare. Giusto tra l’84 e l’86 si può dire che abbiamo iniziato a farci domande, ovvero quando ho fatto il militare. Poi gli anni Novanta sono stati un altro momento ancora differente.
E questo ambiente paesano come ha vissuto – se lo ha vissuto – il sopraggiungere dell’arrampicata nei media, nelle riviste, le prime gare, gli sponsor? Questa sorta di piccolo boom nell’ambito dei mass media ha avuto un riscontro su di voi?
Certo. Leone ci faceva leggere Motti ed ascoltare Guccini , anche se a noi piacevano già più gli americani tipo John Gill, Bachar, Karl. Avevamo un’idea già più, chiamiamola, sportiva. Compravamo Alp e La rivista della Montagna facendo in sei la colletta e c’era l’obbligo di leggerli nel giro di un giorno per passarli l’indomani al compare in affari (ora ce li ho tutti io a casa). [Ghigna soddisfatto]
Quando ci furono le prime gare a Bardonecchia rimanemmo abbastanza sconvolti, tutti. Anche quelli che s’immaginavano un futuro da professionisti in questa disciplina. Nessuno si sarebbe mai immaginato che in un ambiente così solitario qualcuno si sarebbe inventato le gare. Eravamo confusi, però ci piaceva vedere tutti questi grandi insieme: Mariacher, Glowaz, la Iovane, Moffat, Moon, Godoffe, Gullich e altri.
Però allo stesso tempo ci scocciava anche un po’: tutti questi personaggi c’erano sempre piaciuti perché erano dei solitari, avevano sicuramente un loro gruppo, un loro clan, ma erano completamente staccati dalle istituzioni, dal movimento alpinistico che allora andava per la maggiore. A me piaceva davvero molto questa loro emancipazione. Un gruppo partecipe nella scoperta di tutto, ma secondo legami intimi senza secondi fini.
Vederli alle gare un po’ mi sconvolse, non me lo sarei mai immaginato. La sensazione era fastidiosa, del tipo: «ma che stà a succede qua?». Questa dimostrazione dell’Io, per quanto in foto apparissero tutti molto colorati, accattivanti e belli non era affatto piacevole.
Chiaramente vedendo loro, anche noi però abbiamo iniziato a pensare ad una possibilità professionistica in questo settore, abbiamo iniziato a farci molte più domande su quello che stavamo combinando.
E per essere un po’ frivoli: come avete percepito questo nuovo immaginario che transitava anche attraverso la lycra, i fuseaux, le bandane tra i capelli?
Mia madre mi diceva sempre: «cambiati fuori che io non ti voglio manco vedé!». Andavamo in bicicletta a scalare con ‘sti pantaloni tigrati e tutte ‘ste cose qua. Per un certo periodo un amico mio si metteva pure l’ovatta davanti al pacco, era davvero imbarazzante questa nostra cosa. Era un modo di emergere da una situazione che non ti dava niente. Personalmente non mi cambiava tanto, perché giocando a pallacanestro avevo già visto i grandi di questa disciplina mettere in evidenza le loro caratteristiche di deficienza; e noi naturalmente gli andavamo dietro. Che ne so, ad esempio andavamo ad allenarci in pigiama. In tutto questo io però non ci vedo un’ignoranza, piuttosto una difficoltà nel comprendere, nell’andare a fondo di quello che stavamo a fare. Una grande superficialità. Lo facevi così.
Per metterti un paio di pantacollant tigrati e girare in un paese ipercattolico e bacchettone, o sei uno che ha deciso cosa sarà nella vita, oppure sei un fregnone. Noi eravamo tutti fregnoni, anche perché appena c’è stato da cambiare, siamo cambiati. Poi sono venuti i pantaloni bianchi e tutti a mettersi i pantaloni bianchi. A seconda di quello che veniva fuori dalle riviste noi facevamo. Non studiavamo certo il perché. Con una semplicità che qualcuno potrebbe chiamare ignoranza.
E poi ad un certo punto un botto che ci ha portato ad essere tutti fastidiosamente competenti. Da lì è nata una rottura, anche nel gruppo, tra gli ideali delle varie persone che componevano il nostro gruppo di provinciali. Ti parlo della provincia di Frosinone. L’incontro con l’arrampicata romana ci ha fatto capire che stavamo facendo qualcosa di più grande di quanto ci immaginassimo prima, ma in un certo senso ha cancellato le regole. Le regole di comportamento, dico. Ci siamo resi conto che per fare quello che facevano loro non bisognava guardare in faccia a nessuno: bisognava sfruttare la sicura, la macchina, il socio. Il desiderio di scoperta che avevamo letto sui libri di Leone non c’era più. Era diventata un’ossessione, non facevamo nient’altro che quello dalla mattina alla sera.
Quindi da una dimensione intuitiva, un po’ ingenua, molto artigianale siete passati alla competenza, tanto più che molti di voi sono diventati abili chiodatori, giusto?
Beh, allora quella di chiodare è stata una necessità.
Invece a mio avviso questo salto ha ridotto la competenza, perlomeno la mia idea di competenza. Inizialmente facevamo molte prove a proposito di quello che volevamo e andavamo a fare. Il livello a quel punto era molto alto e non potevamo più permetterci di compensare con strumenti a caso, non andavamo più per capre e i rischi erano alti. Questo continuo scoprire: cercare di provare per andare oltre, si è abbandonato quando è arrivato qualcuno dall’alto a dirci qualcosa. Arrivava quello che sapeva e ci faceva da faro; tu andavi verso ‘sto faro senza esitazioni, anzi con un certo spirito di emulazione. La ricerca della difficoltà in questo ci ha proprio messo i paraocchi. Pensa che c’era uno romano, che non sto qua a dire chi è, che praticamente secondo noi era un Gesù, sempre a proposito dell’etica da seguire, ti parlo. Poi negli anni abbiamo scoperto che era nei servizi segreti, quindi il più colluso del mondo. Per noi è stato un trauma, capisci era un bandito: partecipazione a banda armata e robe di questo genere. Per noi inizialmente era il Messia. Poi non voglio dire che la partecipazione a banda armata sia sempre sbagliata, però in quel momento storico, immaginarsi questo ragazzo giovane che per ricavarsi un posto nel mondo mette in conto di sparare… Noi avevamo completamente un’altra idea.
Questa ossessione nel raggiungere il massimo, il limite ci ha portato proprio a pensare in un’altra maniera. I rapporti si sono sfasciati e con loro la vita. Io sono convinto di questo. Con tutto che allora facevamo già attività professionali, ognuno lavorava: operai, tecnici, tutti immancabilmente presi da quest’ossessione. Un’ossessione a fare qualcosa che non capivamo fino in fondo. Certo avevamo letto I Falliti, ma solo ora ad una certa età capisci che allora avremmo potuto prendere una direzione completamente diversa. Infatti la stessa cosa poi l’abbiamo vissuta nel lavoro. Probabilmente non eravamo preparati ad accogliere nel modo giusto certe persone che arrivavano a farci scoprire le novità. Eravamo senza coscienza critica. Prendevamo tutto per oro colato, in assoluto. Questo è stato sicuramente un limite anche in prospettiva allo sviluppo della disciplina nelle nostre aree.
Parli sempre al plurale mentre racconti, questo vuol dire che c’era un confronto forte se ti senti a distanza di anni ancora così parte di qualcosa.
Beh, ma c’era anche l’odio tra di noi. E non poteva essere diverso. Nelle bande di quartiere è sempre così, ma eravamo così pochi che anche non sopportandoci eravamo costretti a vivere insieme. La pluralità era quindi alla base, quasi naturale. Eravamo molto schietti e onesti: «se non lo hai fatto, non lo hai fatto». Un’etica ferrea, riconosciuta da tutti. La performance la dovevi fare di fronte a tutto il gruppo, mai per i conti tuoi. Se il giorno prima ti riusciva un tiro, ma non c’era nessuno del gruppo a vederti era come non averlo fatto. La capacità di gestire la pressione del gruppo era uno degli elementi chiave nel salire. Infatti già allora pensavo che le gare fossero roba da mostri.
La chiodatura, come ti dicevo, era invece un’esigenza. La competenza è venuta dopo. Non potevi aspettare che venisse qualcuno da Roma. I loro luoghi sacri erano ben altrove, non venivano nella falesietta del cazzo a farti un favore a te, ma poi siamo stati noi sciocchi a fare un favore a loro chiodando luoghi stupendi con tiri interessanti e anche duri.
Hai parlato spesso di etica, regole, norme, anche nell’ambito della condotta e della chiodatura, ma questo non è mai entrato in conflitto con un certo spirito anarchico, libertario proprio all’arrampicata di quel periodo?
Noi non eravamo anarchici, almeno non tutti. L’idea anarchica non ci ha mai toccato. Sì, potrebbe sembrare tra racconti e vissuto che lo fosse, m non era così. Forse sarà stato anche per un fatto di educazione familiare abbastanza rigida, legata al rispetto, alla condivisione ed anche all’accettazione. Abbiamo sempre seguito qualcuno, c’era sempre un leader da seguire purtroppo e per fortuna. Poi piano piano i leader sono aumentati fino a che non siamo diventati un po’ tutti leader. Ritengo che una regola condivisa in difesa di qualcuno, dell’ambiente, del territorio, della roccia, dell’arrampicata stessa sia necessaria se giusta. Poi magari io c’ho un’idea sbagliata dell’anarchia. Ci siamo sempre fermati al limite, non siamo mai andati oltre. Mo tu mi dirai, ma qual era il limite? Per noi era la necessità, e forse non abbiamo mai avuto bisogno, come invece hanno fatto altri, di andare al di là di questa necessità.
Abbiamo toccato l’etica, parliamo allora anche di estetica, a tuo avviso c’era un margine poetico all’interno di quello che andavate a combinare? Prima mi dicevi che non c’era nulla di romantico nel vostro andar per monti.
Dopo che abbiamo scoperto che questa cosa ci piaceva così tanto, sono venuti fuori i sentimenti. E questi sentimenti erano quelli legati alle nostre vite, venivano fuori da ognuno di noi. Io, in particolare, vivevo il profondo desiderio di ricercare una comune conoscenza: trasmettere agli altri una condotta che riuscisse ad essere la più corretta, la più equilibrata possibile. Anche qui, riconosci bene che non è che ci fosse una prospettiva particolarmente anarchica: quello che volevo fare io, in qualche modo, cercavo di imporlo agli altri.
Poi ad esempio, sempre nell’ambito del vivere o non vivere in modo romantico la montagna, io penso di non essere mai salito su di una cima. Non sono mai andato a toccare croci. Questo perché i miei compagni sostenevano che non bisognasse andare in vetta visto che quando uno arriva in cima si deve poi mettere in testa anche di scendere, e scendere è fatica. In questo modo, invece, non arrivavamo mai ad un traguardo: lo scendere per noi non esisteva. In questo siamo stati parecchio influenzati da Reinhard Karl che esaltava la scoperta di ciò che sta in basso, più di quanto non considerasse ciò che stava in alto.
Poi nessuno di noi era cattolico e il fatto di raggiungere una croce ci sembrava come uno sconfinare in un territorio non nostro, un credo che non faceva parte di noi.
Non c’è la necessità di essere romantico in una situazione nella quale è permesso esserlo: il paesaggio bucolico, la montagna al tramonto; tutto sommato è facile essere romantici così. Diventa necessario invece quando sei in mezzo ad una discarica, magari sempre tra i monti. E allora, riesci a renderti conto che quella discarica fa essa stessa parte di quel luogo. In più noi abbiamo vissuto una montagna che in pratica non era montagna, le nostre colline e valli erano altro. L’aspetto più romantico che ho vissuto in montagna riguarda l’aspetto della condivisione delle esperienze con il compagno. Quasi un innamorarsi più che un essere romantici. Innamorarsi permanentemente della persona che ci accompagna. Ecco perché dico che forse tutto questo non ha molto a che vedere con il romanticismo.
Se vado con qualcuno a fare una passeggiata nel bosco magari questi mi dice: «’scolta: il silenzio!». Io non sento mai niente. Non lo sento perché probabilmente quel silenzio io ce l’ho già dentro da quando siamo partiti. Non riesco ad andare in un posto per trovare la bellezza di quel posto. Forse in una prospettiva di immaginario mi faccio anche io più romantico. Poi se vai a leggere i molti libri di montagna spesso nei racconti non c’è niente di romantico, perché darsi una martellata sulle dita quando sei sulla nord del Cervino non è affatto romantico.
Nel corso di uno dei tuoi momenti di formazione ti ho sentito esprimere un concetto direi quasi fondamentale. Cito dal Vangelo secondo Andrea: «In arrampicata c’è chi scala bene e chi scala forte. Se mai vi dirò che siete forti, prendetelo come se avessi detto che vostra mamma è una meretrice [il termine era forse un poco più colorito]». Pura poesia, ma ci potresti fare la parafrasi?
Beh certo, al mio paese se ti insultano la mamma non è una cosa bella.
Anche da queste parti, tutto sommato…
Eh, ma sai ci sono certi posti dove la mamma non è così importante. Giusto per ritornare all’aspetto anarchico delle varie situazioni.
Io l’ho vissuto in pieno quel periodo, ma questa cosa della forza mi sembra che non rientri minimamente in quella che è la mia idea di salire una parete. Ecco, questo forse è un aspetto romantico di come vedo le cose. La grazia del rinunciare ad una parete, perché sai di non avere i mezzi per salire come vorresti, ti pone in un rapporto di equilibrio con la parete. Allenare la forza, secondo me è semplicissimo. Essendo stato un atleta della pallacanestro posso dirti che è molto facile da allenare, ci vuole costanza e spirito di sacrificio. Invece per essere belli e bravi – e le due cose vanno di pari passo – serve uno sforzo interiore. Oggi, ma forse anche ieri, questa cosa non è stata assolutamente presa in considerazione. Ancora di recente mi sono rivisto un film sull’arrampicata in Inghilterra con Moffat, Moon e gli altri. Ecco quando l’ho visto anni fa Ben Moon mi sembrava un angelo, adesso a rivedere lo stesso film me pare un robot. Ma anche prima era un robot. È il mio sguardo che è cambiato. Ecco quando parlo di forza io mi immagino la brutalità, essere forti è brutale.
Chiudiamo il gioco della nostalgia e dopo averlo ampiamente smontato proviamo anche noi a nutrire almeno un poco il mito degli anni Ottanta. Hai qualche aneddoto chiave per aiutarci a comprendere appieno quella strana decade?
Una cosa che si diceva sempre era «blocca Baiò!». Noi lo si ripeteva in continuazione e ci faceva anche parecchio ridere, benché non sapessimo assolutamente cosa volesse dire. In pratica era una sorta di insulto a tutto quello che avevamo intorno.
E poi vabbè gli scherzi. Allora eravamo quasi usciti e sopravvissuti all’idea di competizione, di raggiungimento di chissà quale grado e quindi cercavamo in tutti i modi di creare situazioni goliardiche. Un divertimento continuo, solitamente alle spalle di qualcun altro. Come quando piazzammo in parete la famosa piastrina di cartone o la catena di plastica o i serpenti ficcati nei buchi o la pipì dentro le scarpe, eccetera eccetera.
Era un modo per distoglierci da questa frenesia e questa violenza che investivamo per raggiungere chissà che cosa. Questo spauracchio del grado che in realtà più che raggiungere stavamo a perdere.
Non ho una barzelletta su questo da raccontarti. Però mi piacerebbe che le persone pensassero che quando stai a fare una cosa, non vivi un singolo istante, ma stai andando a costruire un periodo, un momento storico racchiuso in mille situazioni. Non ci sono virgole o punti è tutto un continuo. Era un continuo portare avanti il divertimento con tutto quello che poi gravava intorno: la ricerca del lavoro, di te stesso; non era facile.
Vivevamo anche un certo isolamento rispetto alle dinamiche del paese, che se inizialmente era isolamento ricercato, piano piano era diventata una condizione assai faticosa da sopportare. All’epoca nessuno voleva scalare, oggi quasi bisogna scacciare gli arrampicatori dalle pareti, ma allora non esistevamo. In quegli anni se un amico usciva dal giro e non si faceva più vedere rimanevi fregato, era una grave mancanza. Ritornavi ad essere solo. Magari cercavi di riprendere a fare la vita del giocatore di calcio, per ricostruire gruppi, amicizie, simpatie. Ma allora noi, ormai per tutti, eravamo quelli che arrampicano ed è un’etichetta che in paese non ci siamo mai più tolti. Anche adesso che abbiamo 50, 60 anni in paese continua quest’idea.
Come stai vivendo il boom delle palestre d’arrampicata indoor in urbano? Non prenderla come una domanda stupidamente retorica, ma a tuo avviso possono questi luoghi trasformarsi in spazi virtuosi dove promuovere la disciplina?
Devono essere degli spazi virtuosi. Noi siamo sempre molto esterofili e guardiamo sempre a cosa fanno gli altri oltre confine. Da quelle parti è tutto uno spazio virtuoso, dove puoi trovare la biblioteca, la libreria, la cineteca, lo spazio d’aggregazione e di scambio. Io posso fare un confronto con la realtà romana, dove esistono queste palestre enormi. Ecco, questi spazi in potenza potrebbero essere questo, ma non lo hanno ancora capito. Ancora non c’è il desidero di andare lì e costruire un gruppo di persone che vivano l’arrampicata in senso ampio e sociale. Capiscimi: tu vai al cinema per vedere un film, giusto? Però magari vai anche per incontrare nuovi amici, vai a vederti un film stupido e inutile, ma ci sei andato con una banda di amici per fare comunione. In palestra questo è ancora difficile. Diventa sempre difficile distinguere l’attività sportiva da un momento ludico-ricreativo. Pure quando vai a giocare a biliardo e ti metti a fare il cazzone qualcuno subito t’attacca: «ma oh, semo venuti pe’ giocà a biliardo!». Bisognerebbe in questo senso ridiscutere gli spazi stessi delle strutture, per dare maggiore valore a questa dinamica sociale, non mettere il bar al centro della palestra, ma dividere gli spazi per dar maggior credito alla convivialità, allo scambio. Creare un ambiente bello aldilà delle logiche dell’arrampicata. Il più delle volte invece non ci vai più perché ti rendi conto che lì ci si va solo per quello, per performare, quasi come se fosse fitness. Proprio per questo io continuo a preferire le strutture non omologate, quei luoghi che non rivendicano un’appartenenza all’omologazione. Anche perché a seconda di come imponi uno spazio vai poi a realizzare un tipo di attività piuttosto che un altro. Oggi tutte le palestre omologate puntano allo stesso obiettivo, senza farsi grandi domande o rivendicare una propria identità. E tendenzialmente l’obiettivo è: fare forza. Chiaro che è l’ambiente esterno che plasma la struttura mentale della palestra. Immaginati oggi una palestra tutta verticale o appoggiata, non ci andrebbe nessuno. Eppure non è che in natura non esistano muri verticali e placche, anzi! Generalmente i gestori delle strutture vedono i muri appoggiati come qualcosa di inutile, qualcosa di economicamente svantaggioso.
Ma come si fa a pensare ad una struttura educativa e ricreativa nella quale però ho modo anche di fare cassa!? Si mette sempre da parte quella che è la crescita del gruppo. In questo modo i forti scaleranno liberi per tutta la palestra, mentre i più lenti o quelli che non riescono finiranno rilegati in una parte dimenticata, brutta e poco accogliente. Ma come fai allora creare un gruppo in un ambiente del genere?
Ecco, mi accendi una lampadina: oggi sembra che l’arrampicata, che sia in alta montagna, in falesia, su plastica, su massi, viva un’estenuante tensione verso la performance sportiva. Una spasmodica necessità di oltrepassare il limite sempre e comunque, raggiungendo traguardi aldilà dell’umano. Una volta c’erano gli alieni, ma in qualche modo erano inseriti nella società: magari lavoravano tra i comuni mortali, non erano professionisti della scalata fatti e finiti, si confrontavano con le problematiche comuni del quotidiano…
Mah, non so quelli che conosci tu, ma quelli che conosco io erano già professionisti. Ci sono tantissimi idraulici che avevano le carte in regola per fare quello che faceva Manolo, ma non sono mai emersi perché il proprio carattere impediva loro di emergere. Un amico mi faceva sempre l’esempio di Jimi Hendrix: non ci sarà mai più nessuno come lui, perché lo ha fatto per primo. Fatta una cosa, tutto il resto è una copia.
Adesso è diverso, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione della difficoltà. Prima c’era un’impossibilità a poter raggiungere una certa difficoltà, ma era legata anche alla conoscenza e alla competenza tecnica e fisica della crescita. Adesso invece mi sembra che ci sia un’ossessione a fare per forza quello che hanno fatto gli altri. Come se fosse il calcio. Come nelle grandi squadre, c’è quello fortissimo e poi non c’è nessuno, benché tutti in squadra siano fortissimi. In arrampicata mi sembra che ora si viva la stessa identica cosa: abbiamo un riferimento sempre costante ad un fortissimo. Chiaro non ce n’è più uno solo, quindi puoi anche scegliere. Prima la scelta era ridotta a tre o quattro fortissimi. Quindi ora dato che sono molti di più i fortissimi rappresentati magari ti viene in mente di scegliere chi seguire in base all’individuo che sta dietro a quel fortissimo. Non solo più una ricerca del migliore, ma anche del più simpatico magari.
Ok, magari oggi il discorso è plurale, prima c’era Il Manolo, L’Edliger e pochi altri, questo almeno per i media, ma tra questi tanti che abbiamo ora non senti una certa omologazione?
Sì, sono tutti uguali. Però proprio perché sono tutti uguali hai più facilità a scegliere il personaggio che più ti sta simpatico. I ragazzetti di oggi nello scegliere i loro miti possono fare affidamento anche sulle caratteristiche umane che questi trasmettono: simpatia, allegria, bella presenza, non solo in virtù delle loro prestazioni fuori dal comune. Non dico che siano carismatici, ma hanno un carattere che riesce ad emergere. Sono quello che sono. Avendo tutti un livello esagerato, ed essendo quasi tutti allo stesso livello, per forza di cose esce l’essere umano.
Adesso non voglio fare il passatista che si mette a dire che “prima era meglio ed ora fa tutto schifo”, ma ora non ci si sta concentrando troppo sul risultato? Non che prima non fosse importante, ma ora mi sembra che sia diventata l’unica ragione d’essere.
Su questo non ti posso rispondere perché non è che vado in giro con Ondra e la sua cricca. Però ad esempio mi capita spesso di girare con Luca Andreozzi e lui è bravo, è forte ed ha costruito il suo percorso di esperienze aprendo a svariate attività e discipline, non chiudendosi solo all’arrampicata.
Andreozzi però è un mosca bianca, a mio avviso è uno fuori dal comune, non è esemplificativo di quel mondo di cui stavamo parlando.
Sì, però allora non so che dirti perché quelli là non li conosco di persona. Certo la loro visione dell’arrampicata riduce notevolmente quella che era la mia visione. Però quando in tanti sono allo stesso livello si apre anche la possibilità di discutere tra pari.
Ma secondo te quale discussione ci sarebbe in atto?
Beh, forse non c’è ancora un gran desiderio di discutere, però averci già le basi per un dibattito non è poco. Auspicando una futura trasformazione della disciplina è fondamentale che ci siano le condizioni di base per il dialogo. Chiaro che per loro ora la prerogativa è essere più forti degli altri e questo immancabilmente fa mettere da parte tutto quello che potrebbe contribuire allo sviluppo e alla crescita di questa disciplina.
Quello a cui volevo arrivare in realtà è questo: Terray a suo tempo ha inaugurato il suggestivo concetto di Conquistatori dell’Inutile, ma l’inutilità odierna che proviene dal mondo dell’arrampicata mi sembra qualcosa di molto differente: una faccenda negativa, deformante e diseducativa. Si può forse ribaltare il tavolo e pensare all’arrampicata come ad una disciplina utile?
Secondo me è impossibile fare questa cosa qua. Succederà questo però: la disciplina andrà sempre più a dividersi. Ci saranno due modi completamente differenti d’intendere l’arrampicata e lo scalare. Due universi che viaggeranno in parallelo senza mai più toccarsi. Bisognerebbe iniziare ad educare le persone a pensare che esistono due diversi modi per vivere questa attività: partendo dal desiderio di ricerca su se stessi, oppure prendendo in considerazione il paradigma sportivo e performativo. In questo modo non ci sarebbe la necessità di dover somigliare a qualcuno. Io non credo che un tennista amatore di trenta, quarant’anni pretenda di diventare Borg o qualcun altro. Ormai ha capito che sono due mondi completamente diversi, che vanno in due direzioni differenti. Certo questo dovrebbe diventare un po’ più chiaro per i ragazzi giovani.
Poi tornando al discorso se prima era meglio o peggio, sai la nostalgia nasce proprio dall’interrogarsi su questo e non sapersi dare una risposta. Poi ti rendi anche conto che prima eri dio ed ora sei l’ultima cacca dell’universo. L’unica nostalgia sensata che uno dovrebbe maturare è quella che lo porta a riconoscere che per quanto in gioventù si sia sentito dio in realtà è stato solo fortunato.
Ma alla luce di questo recente boom, questa fitta presenza di palestre sul territorio può portare a qualche buona trasformazione?
Aspetta Miché, chiariamo una cosa, io ci sono stato parecchio all’estero e ho tanti amici nella patria madre dell’arrampicata ovvero in Francia, non mi sembra proprio che qui ci sia un boom in corso. Abbiamo un momento storico di conoscenza, non è un boom. Il boom è la partecipazione costante ad una disciplina. Questo momento tra poco si interromperà, proprio perché finirà il piacere dell’attività. Stiamo creando una disciplina che non ha niente di sportivo in senso educativo, neppure sociale. Mi sembra quasi che stiamo aiutando i nostri politici a plasmare degli individui atomizzati che se ne stanno ognuno per proprio conto. Anche se facciamo i pulmini per andare a fare le gare. Adesso dico una cazzata, ma dovremmo pensare ad un’arrampicata a squadre, ad una staffetta, non so, che te devo dì? Probabilmente quelli che se sò inventati l’atletica leggera si sono resi conto che la massima espressione della vita olimpica è correre insieme ad un altro in squadra. Questo potrà far fare il boom alla disciplina. Stiamo mettendo le mani in una cosa ben più grande di noi, non sappiamo assolutamente dove andremmo a parare. E lo vediamo proprio nel rapporto tra uno che viene e fa fitness nella palestra indoor e poi paro paro riporta gli stessi schemi nell’outdoor. Fuori non bisogna fare fitness. Culturalmente bisogna evitare che ciò accada. Altrimenti apri a delle problematiche serie.
Passiamo ad un altro macro-tema: Il mestiere di chiodatore. Se cerchi Andrea Imbrosciano su Google si parla soprattutto di un tal chiodatore. Ma chi è il chiodatore? Intendo anche in senso metaforico, se vuoi.
Mh… La chiedi ad un uomo o ad un chiodatore, questa cosa?
La chiedo ad Andrea.
Ok, quindi probabilmente ad entrambi.
Allora, io ti dico che per me tutta questa cosa nasce per un’esigenza. Siamo entrati in contatto con un territorio dove ancora nulla era stato fatto. Non ci sono arrivato quindi per scelta, anzi sono stato quasi costretto dalle circostanze. Però costrizione o meno devo dire che sono finito a fare qualcosa che mi piace, e mi piace tanto. Posso proprio dire che ne è nata una vera e propria passione. Passione e non lavoro, ci tengo a sottolinearlo. Perché un conto è la possibilità di aprire un itinerario, altra questione è l’obbligo di farlo.
Io in tutte le cose che si fanno con passione penso che ci debba essere la conoscenza. Una conoscenza che di volta in volta si faccia più profonda. Perché se vuoi far sì che una passione non venga mai meno devi esplorare le varie sfaccettature di questa passione che possono essere utili e meno utili. Anche questa è stata, come per l’arrampicata, una vera e propria ossessione, non lo nego. Ci sono stati periodi nei quali se non andavo a chiodare mi sentivo praticamente inutile. Penso che ne venga anche dall’educazione che ho ricevuto: un grande desiderio di fare per forza qualcosa per gli altri. Fatto che può rivelarsi utile, ma allo stesso tempo terribilmente sbagliato. Anche perché nel momento in cui tu pensi di fare qualcosa di utile per gli altri, pretendi anche che gli altri poi facciano qualcosa per te, ma è proprio una pretesa.
Il perché sia così presente il mio nome su questi siti e blog penso sia dovuto al fatto che i media amplificano e moltiplicano la visione e la percezione delle cose. Al momento, se ti devo dire, penso di essere quello che sa meno cose rispetto all’arte di chiodare. Certo, conosco le basi e un’idea sulla reale utilità delle ultime innovazioni riesco a farmela.
Rispetto all’etica, secondo me alcuni chiodatori non hanno mai avuto niente di tutto questo. L’etica è quella che ti porta a scegliere di non farlo. E adesso per molti versi ci dovrebbe essere l’obbligo di non farlo. Non farlo bene o farlo male, non farlo proprio. Perché come allora io mi sono sentito il personaggio che poteva inventare qualcosa tracciando un itinerario, adesso con le competenze che ho acquisito negli anni, con le esperienze che ho fatto, mi devo sentire nelle vesti di colui che impedisce a qualcuno di continuare a farlo male. Chiaro che è una prospettiva arrogante questa, perché in questa prospettiva cosa sia il male lo decido io. Però fare così, come si continua a fare nell’arrampicata in genere, a mio parere non è più giusto. Un vanto che posso avere è quello di avere avuto dei maestri nell’arte del chiodare che prima di essere chiodatori erano soggetti che facevano una scelta e sceglievano anche nella loro vita personale. Ogni corso sulla chiodatura dovrebbe porre quale concetto imprescindibile l’importanza della scelta. Non dico scelta del materiale eh, capiamoci bene. Il resto adesso mi sembra abbastanza ipocrita: dobbiamo sostare all’interno della grande omologazione delle cose perché oramai viviamo di responsabilità: «ho fatto poca cacca oggi, sai, ho una responsabilità rispetto alla fogna».
Mi rendo conto che su questo dobbiamo tornare un po’ indietro, per esempio questa storia del cosiddetto volgarmente trad, quest’idea del tradizionale, potrebbe essere una nuova forma che si adatta bene al condividere con gli altri un pensiero comune; un percorso comune da seguire.
Ah, altro fatto importantissimo quando si studia un itinerario è fare in modo che non si confondano mai le linee. Ogni linea deve avere la sua identità, deve essere il nome con la quale la battezzi. Ecco perché adesso si danno dei nomi del cazzo alle vie, perché mancano in quanto a identità. Non hanno una storia, si incrociano, si sovrappongono, puoi dargli il nome che vuoi che tanto non ha senso. Se vado a chiodare da qualche parte e dico ai compagni: «dai, mettiamo un nome a sta cosa» io so già il nome che dovrà avere, perché ce l’ho già dentro, da quando ho iniziato a vedere quella linea, non un’altra. Ce l’ho già, ma non mi va più di condividerlo con persone che poi non capirebbero. A quel punto tanto vale un numero. Questo infatti, come ti sarai reso conto, è il periodo dei numeri.
Tempo fa hai scritto una tesi che si occupa nello specifico di Siti di arrampicata come proposta per un turismo eco-compatibile. Sai bene che qui a Finale, questa è una tematica assai calda e dibattuta. Ma secondo te una prospettiva del genere può avere davvero senso nel mondo reale o resta una supercazzola?
In questa tesi scrivo che tutto ciò che è eco-compatibile nasce dall’educazione degli individui e dalla rinuncia dei soggetti. Probabilmente è questa la supercazzola. Nel momento in cui dai un’anticipazione del genere rispetto a quella che dovrebbe essere l’educazione di ogni individuo forse a quel punto il libro potresti non scriverlo più, no?
Secondo me l’arrampicata è eco-sostenibile, sono gli arrampicatori a fare in modo di non esserlo. Questo vale anche per la mountain bike e per buona parte delle attività che si svolgono all’aperto. In questo caso bisogna che gli enti e le parti giuridiche facciano la loro scelta, e la loro scelta dev’essere quella di educare o obbligare le persone ad un limite di fruizione. É inutile fare dei grafici di presenze. Io non credo nemmeno più al fatto che un paese di montagna debba ad ogni costo sopravvivere. Se è arrivato il momento in cui deve morire, deve morì e basta. È l’evoluzione dello stato delle cose. Sicuramente prima o poi ci sarà una riscoperta di quel territorio, ma nel presente non dobbiamo per forza far sopravvivere qualcosa che sta scomparendo. Va aperta una nuova pagina, un nuovo capitolo. L’outdoor potrebbe essere una spinta a questo, però capisci che non può funzionare se diventa sostentamento e vita solo per alcuni e per altri invece niente. Non dobbiamo confonderci e pensare che il territorio sia come un grande magazzino dove alcuni vanno e consumano mentre altri vivono di quel consumare. Il territorio dovrebbe essere un luogo dove ognuno di noi ha la possibilità di vivere un momento che non sia legato allo sviluppo, ma alla crescita personale. Basta, niente di più.
Poi sai queste cose si fanno in determinati periodi della vita perché vuoi avere delle risposte, o magari qualcuno ti chiede delle risposte. In questo caso la risposta alla tua domanda è positiva solo se gli enti intervengono a fare una scelta, se non lo fanno resta quasi impossibile, perché l’uomo non è eco-sostenibile. Distruggiamo continuamente tutto quello che abbiamo fatto.
Finiamo questa lunga chiacchierata prendendo in esame la tua conclamata identità di appenninista. Ma cosa sarà mai l’Appenninismo?
A livello storico nulla di diverso dall’alpinismo. La conquista del pastore, che portando il gregge da una parte all’altra di valichi e colli inizia ad esplorare le montagne. Stiamo parlando di una catena montuosa dura, bella, fantastica e assolutamente non costrittiva: ti dà la possibilità di sviare da qualunque parte. La categoria di appenninista è un modo per non riconoscersi in quello che fanno gli altri. Io amo il mio territorio e voglio che le persone che amo conoscano il mio territorio. Cosa me ne faccio della definizione di alpinista quando non me ne fotte un beneamato cazzo delle Alpi? [un ghigno immenso colora quella faccia malandrina che si ritrova].
Anzi, mi dà quasi un po’ di fastidio. L’Appennino è un luogo dove c’è la possibilità di modificare sempre le proprie idee. Non è un luogo chiuso e ottuso. Il suo essere così rotondo ti permette di avere una mente non spigolosa. Cosa che a mio avviso non ti permettono di fare le Alpi, perché ti impediscono di ragionare davanti ad ogni cosa. Il mio eroe è Annibale che è riuscito a valicare le Alpi, ma non ho ancora capito come abbia fatto. Penso sia riuscito a trasferire ‘sti elefanti in Appennino grazie ad un qualche sotterraneo segreto, oppure boh! [ride sornione]
L’idea è quella di cercare sempre e comunque spazi aperti e mai obbligati. Perché se per raggiungere un luogo hai bisogno di tutta quella forza e violenza significa probabilmente che lì non ti ci vuole nessuno. Questa è la mia idea di Appennino.
Poi mi farebbe piacere che qualcuno mi chiedesse, ma quali sono le cime dell’Appennino? Il Gran Sasso per me non è Appennino è già quasi una parte delle Alpi. Io nutro il desiderio di far scoprire questi luoghi che sono così fantastici, o così stupidi che non si fanno viaggi per andarli a vedere. Serve sempre una Mecca: «io vado alla Mecca, là che ci vado a fa?». Ultimamente ho fatto scoprire alcune traversate sci-alpinistiche a soggetti che pensavano di aver visto ogni cosa e invece si son resi conto che c’è un universo nell’Appennino. E l’Appennino è lungo eh, più lungo delle Alpi, molto più lungo delle Alpi.
In un’intervista si legge a tuo riguardo (non so se sei tu a scrivere o qualcuno fa una parafrasi del tuo favellare poetico) : «si innamora della regione Molise, la provincia di Isernia lo entusiasma». Ma cos’è una barzelletta?
Sì, penso sia stato l’intervistatore a dare questo taglio, però è vero. Io non è che avrei fatto grandi viaggi in vita mia se non avessi avuto l’arrampicata. Penso che non mi sarei mai mosso da casa. Con la pallacanestro non ero mai andato lontano. Non so se sia stata l’arrampicata a farmi innamorare di tanti posti e di tante persone, ma credo che senza innamorarmi io non sia in grado di fare niente. Ho visto tantissime pareti in vita mia e ho pianificato e studiato progetti di ogni genere, ma finché non mi innamoro di quel luogo, finché non scatta qualcosa dentro di me non riesco manco a mettere un chiodo. Non ci riesco in assoluto. È come se fosse un accordo: io mi innamoro e poi ti buco. La storia di Castelnuovo al Volturno è un’altra: quella di trovare uno spazio in cui poter rappresentare delle idee.
Il settore Pablo a Palermo fu un vero innamoramento. Appena l’ho visto mi son detto: «ma possibile che qui non ci sta ancora niente, è impossibile, sta pure all’ombra!». Però ci sono andato tante di quelle volte prima di chiodare; per convincermi che quello stesso posto desiderasse di essere chiodato. Mo questa particolarità sembrerà come un trasferimento tra l’individuo e la roccia: ci vuoi mettere un’interpretazione poetica per soddisfare una tua esigenza. Però non mi viene da mettere un chiodo da una parte senza che nasca tutto questo. Adesso faccio quello che posso per far sì che questa attitudine possa essere condivisa dagli altri, dagli amici, dalle persone corrette. Ma il semplice fatto di avere competenze nella chiodatura non penso mi abbia mai portato a chiodare.
Parlavi prima dell’esperienza a Castelnuovo al Volturno, hai voglia di raccontare meglio?
Quello che è successo a Castelnuovo, è successo e non succederà più. Per quasi vent’anni ho sentito l’esigenza di capire se quello che stavo e stavamo facendo era importante. Abbiamo creato questa associazione con entusiasmo e interesse. Questo però ha dato vita ad un sacco di problematiche, soprattutto in quanto a rapporti interpersonali. Nessuno vuole una regola. Penso sia impossibile creare qualcosa senza una regola. Non si può essere sempre soggetti al volere di qualcun altro, mettersi sempre al seguito di qualcuno. Bisogna imparare a scegliere, non puoi aspettarti sempre che siano gli altri a prendere delle decisioni per te. E questo che doveva essere il luogo per dimostrare a noi stessi di essere capaci di vivere in un ambiente libero, fantastico, dove tutto poteva essere a misura di uomo. Ora tutto questo si sta esaurendo. Finisce, perché poi devi sempre fare i conti con le presenze. Le persone sono sempre di meno e il sacrificio non esiste più. E quello è un luogo di sacrificio. Per le idee che avevo io in mente il progetto è andato fallito. Da un altro punto di vista è stato un grande successo perché adesso quella zona è una dei luoghi dell’outdoor. Per il resto è un posto come un altro.
Chiudiamo chiedendo al sommo vate Imbrosciano una profezia sul destino prossimo futuro di questa nostra maltrattata disciplina. Andrea che ne sarà di tutto questo?
No, la profezia no! [e fa gesto di ripararsi dalla domanda schiaffando le manacce davanti alla faccia affilata]. Ti dico, l’attuale attenzione per la disciplina andrà sempre più smorzandosi perché sarà sempre più complesso sopravvivere, oppure ci abitueremo a tal punto da non farci neanche più caso.
Però mi piacerebbe che le persone che decidono, che scelgono, per la rinuncia, lo facessero con grande consapevolezza. Comprendendo che non è piacevole o forse è troppo piacevole. Vorrei che le persone con le quali condivido prospettive e attività capissero anche loro ciò che è preferibile fare.
La frase con cui chiudere però resta sempre «Blocca Baiò!». Ci sarà sempre, perché tutto verrà sempre preso e manovrato con una superficialità totale.
L’altro giorno in un momento di formazione ho detto che per quanto noi lo si creda non ci stiamo innamorando di questa disciplina per le sue incredibili potenzialità ed esperienze sportive; anche perché sotto sotto c’è sempre il morto. Non ci siamo per niente allontanati dalla lotta con l’alpe. Restiamo comunque affascinati dall’esuberanza di questa disciplina, rimaniamo folgorati da quello che ci fanno vedere: ad esempio il film di uno che scala per chilometri slegato. E lo facciamo vedere a tutti senza un minimo di educazione e trasmissione di conoscenze.
E con tutto questo ti ripeto che sta già finendo, è iniziata un sacco di anni fa, ha avuto un apice e ora va verso la fine.
Anche sulla difficoltà, dai, le ventose non ce le avrà mai nessuno, siamo arrivati al massimo. E questa, grazie a dio sarà la fine. Torneremo a vivere quello che era il concetto motorio, gli schemi di base. Faremo esperienza cercando la consapevolezza del muoversi in uno spazio che non è quello di tutti i giorni.
Questa è la mia idea. Poi meno male che, non essendo anarchico, me potrei anche sbaglià.
E se dico Forza Roma?!
Viva il Lazio! [seguono grasse risate e gestacci da commedia dell’arte]
Certo così mi fai apparire come quello che ha messo la rotatoria a Ferentino…
La rotatoria a Ferentino?
A Ferentino vicino all’uscita dell’autostrada c’è una rotatoria con su scritto: «Adesso gira!».
Vabbè mo’ che ci fai con ‘sta robba? Te la vendi al KGB?
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