Gironzolando per Trento, e conoscendo alcuni dei luoghi sacri dell’alpinismo trentino, è impossibile non imbattersi nella sua figura. Schivo, ma tenace. Foriero di aneddoti e racconti, sempre con umiltà e disponibilità. Sorridente, ma duro come gran parte delle persone di montagna. Remo Nicolini, classe 1943, storico presidente della SOSAT (Sezione Operaia Società Alpinistica Tridentina), è uno dei nomi più conosciuti nell’ambiente alpinistico trentino.
Con noi ha voluto parlare di come si è evoluto l’alpinismo negli anni, a margine della consegna del Chiodo d’Oro 2019 nell’ambito del Trento Film Festival. Una vita dedicata alla montagna, ieri come oggi. E che può essere da esempio per molti giovani che si stanno approcciando alle attività alpinistiche. Un’intervista a tutto tondo, quella a Nicolini, che apre diverse riflessioni su come si vive la montagna ai giorni nostri.
Iniziamo subito con le domande più difficili, quelle a cui non vi è mai una risposta oggettiva: com’è cambiato l’alpinismo negli ultimi 40 anni?
Sì, inutile negarlo, l’alpinismo è cambiato e molto… perché è diverso il modo in cui si va in montagna. Ora il progresso ci ha dato nuove tecnologie, e queste sono molto utili perché rendono più facile e sicuro l’alpinismo. Il programma è che dando tutta questa sicurezza creano un alpinismo pronto per l’uso, in cui tutto è già praticamente fatto. E questo permette di oltrepassare dei limiti un tempo impensabili, e raggiungere livelli altissimi… ma prima bisogna tenere conto di qualcosa di fondamentale. Quella che si può chiamare, l’essenza dell’alpinismo.
Quale sarebbe questa essenza dell’alpinismo? Un valore?
Sì, perché appunto dando tutta questa sicurezza elimini il senso della scoperta, il non sapere cosa c’è dietro l’angolo. E la conseguenza è che quindi si è meno esposti, e finisci per metterti molto meno in discussione come essere umano. Cercare la via giusta su roccia è come cercare la via della vita, arrivare a se stessi.
Un valore che si può condividere con i compagni di cordata?
Certo. Questo è un altro elemento che l’alpinismo di oggi ha finito per sminuire. Vale a dire, si sta sminuendo il senso della condivisione della fatica e delle difficoltà. Avendo più comfort tendi meno a chiedere aiuto a chi ti accompagna su roccia, sei più chiuso. Lo scopo è arrivare in cima e tornare a casa e dire a tutti che hai fatto quella cima lì. Invece quanto ti trovi nella difficoltà più pura… è lì che trovi l’amicizia. Perché da due si diventa uno, e quella persona accanto a te ti è più vicina della corda che ti stringe.
Un rapporto umano speciale.
Sì, e non lo puoi trovare facilmente nella società. In cui c’è un’alta organizzazione e la spontaneità dell’individuo è oppressa. Quindi i legami sono più superficiali, io noto molta ipocrisia in pianura. Quando vado in montagna ritrovo un’umanità sempre nuova. Viva. L’espressione massima di questo è fra le persone che vivono in montagna e devono affrontare tutti i giorni un ambiente ostile. Lo fanno spesso da soli e lì davvero non puoi barare. O ti disciplini e lavori duro o soccombi. La montagna come scuola di vita, in sostanza. Sei tu davanti alla natura e non ci sono filtri, come invece trovi in città, dove hai tutto pronto.
Vedo che per te c’è una grande differenza tra il mondo delle terre alte e quello di pianura.
Lo sento molto, è vero. Ricordo che stavo davanti alle cime di San Martino di Castrozza ed ero molto giovane. Mi ricordo di aver sentito un fulmine che mi colpiva da dentro. Volevo andare lì. In alto. Stavo in comitiva e lasciai tutti per andare da solo… Ecco, io in montagna ero nel mio posto. Perché non era solo una sfida, l’arrivare in cima… era questo mondo che vedevo più autentico. In cui sei sempre messo davanti a te stesso per cui sei costretto ad essere onesto. C’è una semplicità che in pianura non può esserci. Perché in città per farti valere giochi spesso sull’ambiguità. C’è un ipocrisia di fondo che è difficile da sradicare. Insomma… abbiamo tutti la maschera! (Ride, ndr)
In montagna ci sono anche sentimenti difficili. Come la paura.
È un segnale. Come quando hai male al corpo. Devi fermarti, c’è un momento di raccoglimento, di sintesi, e di riflessione per comprendere se l’ostacolo davanti coincide con le tue capacità presenti. Compiere la scelta giusta per te. Bisogna sapersi disciplinare perché il panico come l’euforia portano alla non lucidità. Quindi, dopo la poca lucidità, si arriva a un senso di incoscienza che porta a volte ad amare conseguenze. Morire in montagna è una sconfitta. È bello poter diventare vecchi. Come si suol dire… se è troppo meglio ritirarsi, in fondo le montagne non scappano. Stanno sempre là. Meglio essere umili e riprovarci un’altra volta.
Mi permetto di farti una domanda insidiosa: perché gli alpinisti trentini sono poco conosciuti?
(Ride, ndr) Ah! Hai ragione, è vero… E penso sia dovuto al modo di fare di noi trentini. Alla nostra cultura, per farla in breve. Siamo introversi e chiusi, anche fra di noi, e quindi è difficile organizzare un gruppo solido nel tempo e che si faccia conoscere nel mondo dell’alpinismo. C’è stato per un breve periodo un gruppo rocciatori ma è durato poco… ammetto che questo è un punto debole dell’alpinismo trentino. Perché qui ci sono in realtà alpinisti di gran valore.
E i giovani? Come vedi le nuove generazioni di oggi, Remo?
Sono più consapevoli rispetto a quelli della mia generazione. Hanno delle capacità tecniche che noi ci sognavamo… insomma arrivano a livelli davvero alti. Peccano però di sopportazione alla fatica, al dolore. Noi in questo eravamo abituati. Un poco come i polacchi! Guarda cosa sono riusciti a fare gli alpinisti polacchi… sono stati, e sono ancora oggi, davvero forti. Questo perché sono abituati alla sopportazione. Un esempio? Non si mangia da tre giorni? Pazienza! Una cosa però la devo dire, ci tengo assai.
Prego.
Penso sia importante trasmettere ai ragazzi la conoscenza della cultura montana, il rispetto per il nostro territorio. Del resto il 70% del Trentino è fatto di montagna, e bisogna prestare cura per questo ambiente. Mantenere vive le montagne. Altrimenti diventano solo un luogo dove si arrampica, si va e viene. Ed è proprio così che un territorio si degrada e c’è l’abbandono delle terre alte.
Ti faccio un’ultima domanda. Cos’è stata la SOSAT per te?
Io da ragazzo andavo in montagna di nascosto a mio padre… perché la montagna, insomma fare montagna era visto come qualcosa di inutile. Bisognava lavorare! In più i mezzi per comprare le attrezzature non c’erano e quindi… c’era la SOSAT! Potevamo andare in montagna insieme, prendere in prestito quello che ci serviva. Per me e tanti altri è diventata una seconda casa. Un rifugio sicuro. In più ci si divertiva tanto, non si andava solo in montagna. Abbiamo fatto tante di quelle ragazzate… (ride, ndr)
Ce ne puoi raccontare almeno una?
(Ride, ndr) No! Non posso! Ricordo però con piacere quando in rifugio si preparavano queste cene tutti assieme… erano momenti di condivisione. È stato bellissimo.
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