Viaggiare in Himalaya è sempre un’incognita. Questione di quota, forse, poi ci sono le strade sgangherate che causano frequenti forature. Ancora, un numero enorme di viaggiatori che si affidano ai (pochi) mezzi pubblici che di giorno in giorno arrancano fino a superare i cinquemila metri di altitudine. Viaggiare in Himalaya è una scuola di vita, un viaggio nel viaggio che, da solo, arricchisce la percezione dell’ambiente, soprattutto a livello umano. Per quanto mi riguarda ho trascorso settimane sugli autobus himalayani, in particolare su quelli dell’Himachal Pradesh. In questo articolo – tratto dal libro “Kinnaur Himalaya” – racconto un episodio accaduto a inizio ottobre 2018, tra Kinnaur e Spiti, in una delle zone più affascinanti dell’Himalaya indiano.
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Sui bus himachali non ci sono limiti di carico. O per meglio dire, dopo anni e centinaia di ore di utilizzo non mi era mai capitato di arrivare ad una totale saturazione degli spazi, imparando dall’ingegno dei viaggiatori locali l’arte del Tetris applicata alla mobilità di ogni giorno. Lo spazio c’è, basta adattarsi. I corpi si possono flettere o schiacciare, i bagagli trasformare in sedili aggiuntivi. Poi arriva il giorno in cui l’autista dice basta, e non ammette più nessuno all’interno della carlinga, destando lo sconcerto di tutti. È accaduto rientrando a Rekong Peo (in Kinnaur) da Kaza (capoluogo dello Spiti), nell’Himalaya indiano.
La partenza è prevista per le sei del mattino. Alle cinque e un quarto sono alla stazione degli autobus, certo di essere tra i primi ad accodarsi in biglietteria e ad assicurarsi un posto a sedere. Non pretendo la prima fila, ma sono deciso a guadagnarmi una seduta garantita, numerata a penna dal bigliettaio del chiosco. Lascio l’albergo con il materiale da viaggio e appena mi affaccio sullo spiazzo delle partenze capisco di non essere né il primo, né l’unico ad aver pensato di arrivare di buon’ora. La grata esterna al chiosco, un buco di quaranta centimetri per sessanta, è nascosta oltre la ressa febbrile formata da almeno una trentina di aspiranti passeggeri, accalcati in attesa del proprio turno. È da poco iniziata la prima settimana di ottobre (2018) e gran parte dei migranti stagionali sta facendo rientro a casa. Da giorni in Spiti le temperature minime sono scese sotto lo zero, rendendo la vita dei lavoratori particolarmente dura. «Fa troppo freddo, non si riesce più a stare la notte», sussurra un timido ventenne nepalese, diretto assieme a un folto gruppo di connazionali a Kathmandu. Un lungo viaggio via terra, su gomma e rotaia, della durata di tre giorni, senza soste; ad alleviare le fatiche del rientro solo la consapevolezza di rivedere le famiglie e di aver intascato un buon gruzzolo lavorando sull’altopiano dello Spiti.
Nell’autostazione di Kaza i migranti di rientro sono decine, ciascuno con la propria storia, tutti spinti da esigenze simili: lavoro e uno salario dignitoso per sostenere le famiglie rimaste in Nepal. Li incontro davanti allo sportello della biglietteria, una mano aggrappata alla rete metallica fissata al foro, l’altra sollevata in aria con una manciata di rupie strette tra le dita. Siamo in competizione gli uni con gli altri, decisi ad assicurarci un posto a sedere per le dodici ore di viaggio necessarie a coprire i 200 chilometri fino a Rekong Peo. Ebbene sì, calcolatrice alla mano, significa meno di 20 chilometri all’ora. È il massimo consentito dalle strade di quest’angolo d’India, tracciate sui fianchi di pendii di terra, massi e fango indurito dal gelo. La perturbazione delle scorse settimane ha pure peggiorato le cose, usurando la striscia di terra ora più simile alla pista per una gran fondo di enduro, che ad una strada percorribile da mezzi pubblici. Vengo colto da un filo di ansia. Sono indebolito dalle camminate degli ultimi giorni, ho le gambe provate e temo di non poter reggere un viaggio simile in piedi, appeso alle maniglie nel corridoio centrale. Mi serve una strategia. Per prima cosa devo affidare gli zaini a qualcuno per essere più agile nel farmi spazio in coda. Davanti all’autobus, in attesa, c’è una ragazza straniera. Mi sembra la soluzione ideale. Non è forse vero che tra i viaggiatori esiste un codice non scritto, il cui principio base è proprio il mutuo soccorso? Ebbene, anche lei, viaggiatrice canadese di venticinque anni adotta lo stesso codice e mi invita a lasciarle il bagaglio. Detto fatto mi butto nella ressa e qui incontro “lui”, il suo compagno di viaggio. È fermo in piedi ai margini dell’ammasso umano. Ha uno zaino nero molto voluminoso che porta sul petto. Questo lo mette di fatto fuori dai giochi. In quelle condizioni è impossibile anche solo pensare di avvicinarsi alla grata e al bigliettaio. Mi presento e mi offro di ricambiare la cortesia della sua ragazza, impegnandomi a prendere tre biglietti. Provo ad infilarmi tra la ressa di gente. Niente da fare, una muraglia di costole e gomiti duri come mattoni respinge ogni mio tentativo. Mentre provo e riprovo mi vengono in mente immagini di assedi medievali…in questo momento ‒ penso ‒ sto tentando di forzare l’ingresso con l’ariete, ma il portale difensivo regge ai colpi, quindi devo cercare un’altra strada. Servirebbe una scala, di quelle lunghe e sollevate in alto sulla cinta muraria, fin sopra i merli per portare i soldati all’interno dell’arroccamento…
L’immagine dell’assedio al castello mi viene in aiuto. Nascosta tra le ginocchia della gente ammassata intravedo una panchina in cemento, ben ancorata al suolo. La prendo di lato e con i piedi salgo sullo schienale ben al di sopra delle teste degli altri. Riesco così a sorvolare un bel po’ di persone, arrivando ad aggrapparmi alla famosa grata. Ora che mi sono appeso posso scivolare in basso, imponendo di fatto la mia presenza in prima fila. Da noi, in Occidente, un comportamento simile desterebbe non solo sconcerto, ma in certi ambienti avrei rischiato il linciaggio. Ma così non funziona in India, di certo non alla biglietteria degli autobus di Kaza dove procurarsi un biglietto è una questione di sopravvivenza. Siamo tutti contro tutti. Del resto, mica posso sostare impalato con lo zaino sul petto, in attesa che qualcuno si preoccupi del mio viaggio!
Solidarietà himalayana
La posizione guadagnata davanti al chiosco non garantisce comunque un sedile nell’autobus, ma almeno so che posso tentare. Con la mano libera sfilo il portafogli dal marsupio, lo apro con due dita e riesco a prendere un pezzo da 500 rupie. Ripongo il borsello nel marsupio, chiudo la cerniera e inizio a sventolare il contante contro la grata, neanche fosse la tazza in alluminio di un carcerato. «Tre posti per Rekong Peo, tre posti per Rekong Peo», chiedo a gran voce. Nulla da fare, il bigliettaio è in trance agonistica, ipnotizzato dalle mani protese davanti a lui e dal coro di voci che si ripetono senza sosta. Insisto, ma non c’è verso, ottengo solo un cenno con gli occhi, come dire «la vedo dura». La fiducia comincia a vacillare, poi una voce alle mie spalle risolve i problemi: «digli che c’è una donna, hanno precedenza sugli uomini per via delle corsie preferenziali». Il giovane canadese mi offre così la chiave di volta. «Tre posti per Rekong Peo, con me c’è una donna, ha priorità sugli altri», ripeto scandendo le parole in hindi. Neanche fossi Mosè sul Mar Rosso, questa frase zittisce per qualche istante la ressa. Il bigliettaio si ferma per un istante offrendomi subito la sua attenzione e mi dice: «ok, ecco i vostri posti, sono rimasti gli ultimi due sedili, il terzo dovrà adattarsi». Passo il contante, prendo i biglietti e mi sfilo dall’assedio, consapevole di aver ottenuto una vittoria di Pirro. Non posso dividere la coppia, dire a lui di sorbirsi la tratta in piedi, mentre io mi accomodo vicino alla sua compagna. Riunisco il trio, spiego la situazione e avvio le quattro “chiappe” canadesi verso la certezza di una superficie su cui poggiare. A me non resta che tentare la fortuna.
Questo significa affrontare una nuova ressa, …passando dall’assedio alle mura del castello all’arrembaggio sul galeone bianco e verde… il bus dell’Himachal Road Transport Corporation. Infilo la porta anteriore, quella con su scritto in rosso “out” ‒ scritta puramente decorativa ‒ a voler indicare l’uscita. Guadagno il corridoio. Le prime file sono già occupate, così come il resto del mezzo. Mi serve una fila da tre e sperare nel buon cuore di qualcuno dei presenti. Devo persuaderli a stringersi come sardine per una dozzina di ore, a incastrare fianchi e ginocchia rinunciando al 20% dello spazio garantito dal biglietto. Chi già si gode il posto assegnato è consapevole del rischio. La partenza è il momento più delicato perché quelli – come me – senza sedile cercheranno di farsi spazio a tutti i costi pur di sottrarsi alla roulette del corridoio. Passo in rassegna le file centrali, ricevendo in cambio messaggi chiari: mani strette sulla manopola in ferro, sguardi seri e ranghi stretti. Tradotto in linguaggio comune equivale a un «non provarci, sono fermo e irremovibile». Ma la fortuna alla fine arriva, e si trova accomodata in terza fila. Dai sedili si sollevano quattro occhi scuri e un paio di sorrisi amichevoli. Sono due migranti dell’Odisha, anche loro di rientro dopo la stagione in Spiti. Li ho conosciuti al Ki gompa dove hanno prestato servizio per quattro mesi come carpentieri, costruendo un nuovo edificio vicino all’ingresso del monastero. I due lavoratori stagionali mi riconoscono così, senza esitare si stringono per farmi spazio. Ricambio il loro gesto offrendo sincera gratitudine, e aggiungendo un paio di caramelle rimaste intrappolate in un taschino della mia giacca. Ce l’ho fatta! Ho anch’io un posto a sedere, grazie alla solidarietà himalayana.
Un girone dantesco
Il bus parte con un quarto d’ora di ritardo, cosa rara da queste parti. Il corridoio che tutti vorrebbero evitare è un girone dantesco. Ci sono decine di persone aggrappate alle maniglie, ritte in piedi senza alcuna possibilità di muoversi. Qualcuno ha un fagotto tra le gambe, altri poggiano i piedi sulle scarpe di chi sta vicino, altri ancora tentano di sedersi su un sacco di iuta, anche se le ginocchia flesse occupano spazio prezioso, privando qualcun altro di un posto nel mezzo. Occorre per forza alzarsi ed accettare l’orribile prospettiva di viaggiare in piedi. Qualche ora più tardi conoscerò il numero esatto dei viaggiatori: 120 su 45 posti a sedere. In tutti i miei precedenti viaggi indiani non ho mai visto una cosa simile, così come non ho mai visto un autobus dell’Himachal Pradesh negare una corsa a passeggeri fermi in attesa, appostati per ore lungo i 200 chilometri di strada. Non mi è nemmeno mai capitato di vedere persone in grado di dormire in piedi, mantenendo la stretta alla maniglia, sospesi in un equilibrio favorito dalla vicinanza di corpi e bagagli, ormai diventati un tutt’uno. Con il passare del tempo lo stupore si trasforma in un sentimento di compassione. Penso di lasciare il posto a qualche sventurato e di sostituirmi a lui nel corridoio, ma l’istinto di autoconservazione prevale sull’altruismo. Sono stremato a rimanere seduto, in piedi non reggerei un’ora, meglio voltare la testa e contare i massi aggrappati al pendio di terra, dall’altra parte del finestrino.
Le dieci ore preventivate sfumano tra un rallentamento e l’altro. Così, dopo undici ore di viaggio, a un’ora appena da Rekong Peo la compassione diventa assuefazione. Sono talmente stanco che il mio corpo non sente alcun disagio, né dolore; i 200 chilometri di buche e di scossoni continui hanno anestetizzato la schiena, il collo, e addormentato i glutei. Non stendo le gambe da quattro ore almeno, e le ginocchia accettano di buon grado la semi-paralisi. Poi, sul più bello, quando i primi sorrisi fanno capolino tra i “condannati” del corridoio, perché sanno che manca poco e sembrano pronti a urlare «terraaa» alla vista di Rekong Peo, l’autobus arresta la corsa nella penombra del tramonto. Le porte si aprono e tutta la gente viene risucchiata fuori, sulla pista di fango e ghiaia. Non mi è chiaro il motivo, non capisco nulla, ma mi accodo. «Stamattina c’è stata una frana, bisogna attraversarla a piedi, dall’altra parte arriverà un autobus da Rekong Peo», spiega l’autista. Non resta che incamminarsi. Il sangue torna a circolare alle ginocchia, la schiena si riprende dal torpore prolungato caricando uno dei due zaini, mentre l’altro me lo stringo al petto. Mi riunisco ai canadesi. Nei loro sguardi, sconvolti dal viaggio, ritrovo la mia stessa condizione. Sopravviveremo, prima però tocca la frana. Il fronte del distacco è di almeno un centinaio di metri. E io che mi aspettavo un blocco di granito in mezzo alla carreggiata. Dall’alto scendono ancora pietre, bisogna correre. Facile a dirsi, difficile a farsi, con quel carico addosso e con le gambe grippate. Si attraversa a gruppi, massimo cinque o sei persone. Il via viene dato da un poliziotto messo di piantone sul luogo, protetto sotto uno strapiombo di roccia, a pochi passi dal distacco. I canadesi mi precedono, affianco a me due signore anziane in abiti tradizionali con ai piedi ciabatte infradito indossate con spessi calzini di lana. Mentre mi chiedo se riusciranno a correre le vedo già tre passi avanti, infervorate dalle urla del poliziotto «correte, veloci, veloci». L’adrenalina sale, gambe e ginocchia si scrollano la fatica di dosso e mi trovo a galoppare tra i massi caduti di fresco, indovinando la combinazione di impronte adattate ormai alla giornata di passaggi. Arriviamo dall’altra parte, sani e salvi. Non resta che aspettare il nuovo autobus, e pazientare fino all’arrivo a Rekong Peo, ormai vicina.
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