Era il 1990, ci sono tre lustri di distanza da quando un ragazzo di Feltre, tale Pierangelo “Pier” Verri, appassionato di scalata e di montagna ha coronato un sogno. La prima salita solitaria della temuta via Piussi Redaelli sulla Sud della Torre Trieste. Un “vione” anche oggi, nell’epoca dei super allenamenti, dell’attrezzatura leggera e tecnologica, delle free solo e delle action-cam. Si, le action-cam che campeggiano sui caschetti di molti alpinisti, con quello specifico grandangolo che rende le creste (spesso) più affilate e le pareti ancor più verticali. Nel ’90 non c’era nulla di tutto ciò. In parete al massimo si saliva con una reflex a pellicola, forse c’erano già le prime compatte, i più fortunati si trascinavano videocamere rudimentali, ma il digitale era una tecnologia inarrivabile.
All’epoca, mentre Pier pianificava la sua incursione sulla “Torre delle Torri”, l’allenamento iniziava a bassa quota, nella valle di Schievenin dove ancora oggi lo si incontra appeso agli strapiombi o spalmato sulle placche. Di quell’epoca c’è un video di un suo allenamento “per abituarmi alle solitarie” su un 7a, slegato. Un video a colori di 30 anni fa, a occhio impresso su un Super 8 installato su una macchina da presa. Storia vera, di un’epoca in cui le free solo si chiamavano “scalata slegato” e le action-cam “macchina da presa”. Talento, magnesite e rocce però erano le stesse, come la passione del Pier, che oggi ci riporta in quella valle alle pendici del Monte Grappa, poi su, fino in vetta alla Torre Trieste, passando per i chiodi ballerini della Piussi Redaelli. Chapeau!
Di Pier Verri
Mi lusinga molto quando la redazione di Alpinismi mi chiede di collaborare ancora con un mio scritto. Capisco che la loro stima è linda e sincera, e, non da ultimo, mi viene lasciata carta bianca. Che dire, sembra di avere a disposizione una sorta di diario digitale. Tuttavia, in questo periodo di “prigionia da coronavirus” non è facile trovare gli stimoli e lasciarsi condurre dalla fantasia, dai ricordi, dimenticando di essere ancora attivi e bramosi di montagna, di natura, di avventure, ma anche solo di falesia, di strapiombi impossibili e di placche levigate salite con la schiena accarezzata dal primo torpore di primavera.
È pur vero che dopo l’ennesima seduta alla trave e gli ennesimi esercizi di allungamento, questa forzata permanenza in un appartamento non può che, per difendersi dal “virus dell’apatia”, sviluppare una miriade di anticorpi che vanno a risvegliare soprattutto i ricordi delle salite che più ci hanno gratificato. In questi giorni, prima della telefonata di Emanuele, mi sono lasciato rapire e ridestare da immagini d’archivio, immagini vecchie a volte forse troppo, dato che parliamo di foto e audiovisivi che hanno oltre 30 anni. Uno di questi è un filmato fatto nella Valle di Schievenin datato 1990. Sono ripreso mentre salgo slegato la via “Mister Papi” (7a) sulla Parete dell’orto. Rivederlo mi riporta a quel periodo in cui ero innamorato dell’alpinismo solitario, dei racconti di Bonatti, di Casarotto, del piacere di mettermi alla prova e affrontare le difficoltà in armonia con la natura e me stesso. Una prova che mi esaltava soprattutto perché metteva a nudo tutte le mie paure, riuscendo così a riconoscerle e a reprimerle, tanto da far sbocciare la mia anima e le mie reali capacità in una simbiosi perfetta fra il corpo e la mente. Fra le tante salite solitarie di quegli anni probabilmente una delle più impegnative è stata la Piussi Redaelli sulla Torre Trieste.
L’idea di salire lungo quegli strapiombi mi venne l’anno precedente quando, durante la salita della via Tissi sempre da solo, volsi lo sguardo meravigliato su quei “burroni gialli”, al mio fianco dove sale la diretta di Piussi. La successiva stagione fredda la passai leggendo e rileggendo la relazione della guida di Dal Bianco “Civetta Moiazza”, che descriveva la via come un’impresa epocale durata cinque giorni, dove furono usati centinaia di chiodi e dove dopo le prime lunghezze una ritirata era praticamente impossibile. Una descrizione da far rabbrividire, ma allo stesso tempo, da stimolare alla sfida come sempre è capitato nell’alpinismo. Oltre alla lettura e allo studio della via, mi dedicai in particolar modo alle tecniche di auto-sicura e di risalita, ma più che altro a praticare l’arrampicata slegato in falesia per allenare la mente.
L’estate successiva, dopo un buona stagione sulle Dolomiti, un sabato mattina di settembre, constatato che la giornata era splendida, senza aver programmato nulla, decisi di preparare lo zaino e di partire.
Dopo una scarpinata sotto il sole giungo all’attacco verso le 11, decisamente tardi per le mie abitudini, ma visto la tipologia della salita decido di prendermi tutto il tempo necessario e di affrontare la salita senza fretta, prevedendo eventualmente più di un bivacco. Lo zoccolo lo supero in un battibaleno, con le due corde sciolte a seguirmi, il materiale riposto nell’imbragatura e lo zaino in spalla. Sotto al primo muro giallo, trovo una sosta attrezzata con due spit, posati da non molto, ne sono sorpreso. Verrò successivamente a scoprire che sono serviti qualche anno prima, per calare con una manovra di soccorso un noto arrampicatore, che volato sul primo tiro, si era rotto una gamba nel tentativo di effettuare la prima solitaria.
Tutta la fascia gialla la supero come da manuale, in perfetta auto-sicura, con due prusik su una corda, come insegnava il grande Casarotto. I chiodi sono molti, a volte da brivido, ma la parete non mi appare così aggettante come descritto sulla guida. La progressione sulle staffe non mi piace decisamente, anche perché intuisco dai numerosi appigli la possibilità di progredire in libera, ma non voglio rischiare e continuo con l’artificiale. Solo nell’ultima parte, per velocizzare i tempi, salgo praticamente slegato e parzialmente in libera. Inaspettatamente la cengia mediana è molto ampia, sono le 16,30 e potrei proseguire, ma sono stanco e allo stesso tempo rassicurato dalla parte superiore che si presenta meno ostile, così decido di sistemarmi per un bivacco e rimandare tutto alla mattina successiva. L’attesa del buio diventa eterna, mi lascio trasportare dalla magnificenza che mi circonda, ma ogni tanto emergono le paure per qualche manovra azzardata nella parte appena percorsa.
La notte mi sveglio di soprassalto: un enorme aquila si cala su di me, stringe con gli artigli il sacco a pelo, mi solleva e mi scaglia nel vuoto. Un incubo, o un sogno premonitore? Passo due ore cercando nella compagnia delle sigarette di trovare una risposta: è solo un sogno, devo solo stare concentrato, sono preparato, so in ogni situazione cosa devo fare. Poi mi riaddormento. La mattina attacco la parete carico più che mai, nonostante l’incubo della notte, decido di affrontare e domare ancora le mie paure: quello che voglio è salire libero, senza manovre esasperanti e senza artificiale, solo così ha senso per me l’alpinismo che voglio fare, consapevole però, di avere le corde i chiodi e altri gingilli per emergenza.
Dopo ogni lunghezza recupero lo zaino appeso più in basso su un gancio che mi sono costruito. L’arrampicata è veramente bella, scorrevole su diedri e fessure, sesto, sesto più, qualche passaggio di settimo. Mentre armeggio per sistemare una sosta, volgo lo sguardo in fondo all’abisso, sento urlare il mio nome, due puntini salgono i ghiaioni in direzione dello spigolo Tissi, saprò poi che sono gli amici Stefano Fontana e Franco Benincà, urlo a squarcia gola: vi aspetto in cima! Ma non so se mi hanno sentito. La salita prosegue infinita, le difficoltà sono continue ma solo un tiro in una placca liscia mi costringe a chiodare e ad armeggiare in AO. Alle 11,30 sbuco in cima, è una giornata stupenda, sono al settimo cielo, è la prima salita così impegnativa che faccio da solo!
Sebbene mi fossi ripromesso di aspettare i due amici della Tissi, vista l’ora decido di scendere in fretta, per tornare a casa e raccontare a tutti la mia avventura.
Questa è una via che ho messo nel dimenticatoio più volte, quasi a rinnegarla a causa dei chiodi ad espansione di cui sono poi diventato contrario, ma nel 1990, quando muovevo i primi passi incerti nel mondo dell’etica, rientrava per me nella normalità di una via estrema, una via che comunque mi ha aperto lo spazio per fantasticare e progettare tutte le salite successive.
grande Pier!
Si, davvero bravo!
Grazie, un bel regalo che faccio oggi a mio figlio per il suo compleanno.