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Simone, Urko e quella visione di montagna senza limiti

Mag 1, 2019

Redazione Alpinismi

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Intervista di Fabrizio Goria e Ornella Lo Surdo (foto di Stefano Vanucci)

“L’uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo”. Così scriveva Giordano Bruno parlando della consapevolezza di ciò che è l’essere umano e di come potrebbe migliorare la sua esistenza. A distanza di 419 anni dalla prematura scomparsa del filosofo nato a Nola, i suoi insegnamenti si ritrovano anche al Trento Film Festival (TFF). Il tutto per voce di Simone Salvagnin e Urko Carmona Barandiaran, due alpinisti a tutto tondo che non hanno accettato che le fatalità della vita ponessero nuovi margini, nuove barriere, alle loro passioni.

Simone è ipovedente poiché soffre di una malattia degenerativa della retina, ovvero la retinite pigmentosa. Urko invece ha perso la sua gamba destra. E nessuno dei due si sente nella condizione di essere compatito. Anzi. Sono consapevoli di ciò che hanno vissuto, ma lo vedono solo come un altro ostacolo da superare. Come un problema che esiste solo perché esiste anche una soluzione. Tra Simone e Urko è nata un’amicizia che li ha portati a essere complementari e complici. Che si tratti di scalare in falesia o in vie lunghe sulle Tre Cime di Lavaredo, che si tratti di pedalare in mountain bike o in tandem, che si tratti di Dolomiti o Himalaya, hanno deciso di unire le forze per fare tesoro delle parole di Giordano Bruno. Ed è per questo che li abbiamo incontrati poche ore prima della loro serata alla SOSAT di Trento, uno dei templi dell’alpinismo tridentino. Una cornice speciale per delle imprese che rappresentano l’esempio di come si possa andare oltre le difficoltà della vita con il sorriso sulle labbra. E utilizzando la montagna come veicolo di resilienza.

Iniziamo subito con le domande difficili. Cosa ne pensate riguardo al fatto che la disabilità sia diventata una “categoria inviolabile” da un punto di vista critico?

Simone: mi piace molto questa domanda. Negli ultimi anni c’è stato un aumento nell’ambiente montano, alpinistico, di persone con disabilità che frequentano questo mondo. Non è che non ci siano mai state, c’erano anche prima, solo che erano di meno e praticavano tale attività senza far scalpore. Dopo le Paralimpiadi di Londra del 2012 la situazione è cambiata, perché le persone con disabilità hanno avuto più risalto anche grazie al contributo mediatico. Questo ha permesso di dare un valore nuovo alla disabilità, ovvero non più come un difetto, un elemento solo negativo, ma come un plusvalore. E tale avvenimento ha fatto bene non solo al mondo della disabilità ma anche a quello che possiamo chiamare “normale”, perché chi era affetto da disabilità poteva parlare della propria condizione agli altri.

E quindi rompere tanti pregiudizi?

Simone: sì, dare una voce alle persone disabili ha permesso quindi di abbattere dei muri culturali molto forti, e come sappiamo sono i più pericolosi, perché un muro architettonico lo puoi abbattere quando vuoi… mentre ciò che divide le persone, come l’ignoranza o il pregiudizio, crea una distanza che si può annullare solo parlandosi. Ma c’è di più.

Tipo?

Simone: nel medesimo tempo, è accaduto che ogni persona con disabilità che va a farsi un trekking in montagna per mezz’ora diventa un eroe. Io posso parlare per me, in quanto persona e disabile, e mi sento di dire che tale ragionamento non vale per me. Io devo lavorare molto su di me per raggiungere i livelli sperati, sia nell’alpinismo che negli altre attività che pratico, e quindi per me è logico premiare chi si impegna e non basta avere una disabilità per avere il riconoscimento degli altri. Il mondo mediatico non aiuta sotto tale aspetto; adesso basta fare il minimo per avere una risonanza forte sul pubblico, e questo sminuisce tutti noi che lavoriamo molto per provare a raggiungere i nostri obiettivi.

Quindi io accetto le critiche, sono per le critiche e io penso che il disabile non deve essere inviolabile in quanto disabile. Perché è vero che il disabile parte con una situazione diversa, ed è un inizio più difficile, ma questo non lo giustifica davanti a tutto. Questo perché non basta sapersi muovere su una parete è necessario impegno, dedizione, allenamento. Io sono proclitica anche perché penso sia importante levare tutto il fumo che avvolge certe imprese sportive portate dai disabili, e strumentalizzate dalle persone normali per avere fama. Io, e penso anche Urko, ho avuto un’educazione pratica. Concreta. Il riconoscimento deve arrivare perché c’è lavoro dietro.

E per te, Urko? Come vedi la quasi impossibilità di criticare chi ha un handicap?

Urko: Io penso sia giusto diffondere, dare a molti l’opportunità di fare esperienze, anche alle categorie di persone più fragili. A quelli che invece per svariati motivi spesso sono ai margini della nostra società. Questo però non può valere sempre. Quando si parla di montagna e nello specifico di alpinismo si deve parlare anche di etica. Un certo modo di andare in montagna e la base è il sacrificio. Questo perché spesso la disabilità diventa una giustificazione per non fare e tentare di superare le proprie difficoltà. L’ambiente della montagna dà molto spazio oggi alle persone disabili, in tal modo però si finisce per dare importanza a tutti senza fare differenza fra chi si impegna per molto tempo e grandi sforzi, e chi fa il minimo. Una persona disabile difficilmente è discriminata nell’ambiente montano. Questo ultimo aspetto avviene in società. Perché ci sono molte azioni quotidiane che a noi risultano difficili, come chiedere un mutuo in banca…

Ci pare di capire che anche tu sei contro una società troppo retorica e ipocrita.

Urko: sì, io sono per la critica verso la retorica che circonda la disabilità ma penso anche che bisognerebbe abbattere l’ipocrisia della società. Inutile darci spazio nelle attività sportive se poi per noi è difficile prelevare dei soldi al bancomat e nessuno ci aiuta per farlo.

Abbiamo una domanda che forse non avete sentito spesso porvi. Ma proprio perché ci interessano gli uomini dietro gli atleti, non possiamo non farvela. Quante volte vi siete sentiti commiserati?

Simone: (sorride, ndr) eh… Spesso manca la conoscenza. Lo vedo quando vado con in montagna con guide alpine che, sapendo che sono ipovedente, in cordata mi tengono molto corto. Praticamente mi tirano dietro. Questo perché stanno in uno stato di iper apprensione. Questa situazione per me può essere eliminata solo parlando, conoscendosi, in tal modo capisci chi hai davanti e puoi regolarti sui bisogni di quella persona. Invece oggi si tende a ad osannare o a commiserare i disabili, mentre la via di mezza è difficile da raggiungere, e per quella ci vuole dialogo e ascolto. Oggi però siamo super tecnicizzati ma siamo sordi. Il tempo per accogliere le diversità non c’è… invece c’è bisogno di tempo per conoscersi e parlarsi a tu per tu. Mancando tale base di scambio umano e di rispetto reciproco è più facile costruire una retorica dietro la disabilità. Questo retorica è stata costruita anche dalla Chiesa, che pur avendo fatto molto agli inizi per i disabili, ha professato un approccio caritatevole. Io questo non lo accetto. Perché non voglio carità, sono una persona che conosce i propri diritti e vuole essere tutelato e rispettato. Queste domande sono interessati, perché stiamo toccando dei punti difficili e se ne parla sempre molto poco.

E per te, Urko?

Urko: beh, la mia disabilità si nota in modo abbastanza evidente dal momento che mi manca una gamba. Quando cammino per strada spesso mi guardano e capita che un bambino mi indichi con il dito. Io non ho problemi verso questo comportamento. È un bambino, del resto. Un essere innocente. Il problema è la mamma. Perché? La sua reazione è quella di abbassare la mano e dire al bambino che non si fa e basta. Spesso non si spiega ai figli che esistono tante persone diverse in questo mondo. Li si occultano perché viviamo in una società che tende a omologarci, a voler renderci “tutti uguali”, e fa nascere una paura del diverso. E per chi è diverso un senso di frustrazione personale perché non si è come tutti gli altri. Quando il valore di una società deriva dalla sua diversità e dal rispetto reciproco. Si dovrebbe parlare quindi del fatto che ogni persona ha delle peculiarità fisiche o culturali, e non c’è male in questo. Invece, l’approccio che vedo nei confronti dei disabili è proprio quella di commiserarci. È più facile darci dei poverini e finirla lì. Quando in realtà abbiamo delle grandi potenzialità

E potrebbe essere anche dannoso per chi ha una disabilità.

Urko: Certo, questa retorica non ci aiuta a scoprire quanto possiamo fare per le nostre vite e quelle degli altri. Del resto il cambiamento deve partire dai disabili stessi, siamo noi che facendoci conoscere dobbiamo dimostrare il contrario.

In montagna si parla spesso di limiti. E il limite è prima dentro di voi che fuori, nelle rocce che affrontate. Come affrontate tutto questo?

Simone: La montagna non può essere accessibile per tutti, soprattutto a determinati livelli. Invece può essere fruibile per tutti. Io miro alla fruibilità, che è un termine bellissimo e assai più pertinente di tanti altri rispetto a come viviamo noi la montagna. Questo mi permette di poter affrontare gli ostacoli che incontro mentre arrampico in modo diverso, secondo i miei bisogni. Io non potrò mai entrare nei parametri delle persone normodotate, ma posso creare dei miei parametri personali. La cosa importante è non avere paura dei propri limiti fisici, il vero limite è quello mentale… quando teniamo lontano ciò che ci spaventa. Bisogna chiacchierare con i propri limiti, e anche se non si è arrivati ai risultati sperati, la vera conquista è quella di aver saputo dialogare con se stessi.

Urko. Il limite è nella testa. Difficile non concordare con Simone. Si tratta di qualcosa di relativo e non di effettivo. Quindi è importante confrontarsi prima con se stessi e tale approccio crea la vera evoluzione interiore. Il superamento del proprio limite è il nostro cambiamento. Perché spesso il limite diventa una scusa per non affrontare la vita, i problemi che si hanno, invece è necessario fare il contrario. Mettersi davanti ai propri limiti e lavorarci ogni giorno. Con sacrificio e passione.

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